Il sacro e il potere in Heidegger

Nicola Massimo de Feo, 15/06/2020

Materiale datato: 01/01/1994

Pubblichiamo la prefazione di N. M. de Feo alla seconda edizione di Fenomenologia e teologia (1994) di Heidegger.

G. Caron, Grève des étudiants, université de Nanterre, près de Paris (mars 1968)
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N. M. de Feo, Il sacro e il potere in Heidegger, in M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, tr. it. de Feo, La Nuova Italia, Firenze 1994.

1. Fenomenologia e teologia, storia e teoria di un percorso, individuale ma anche sociale e storico-politico, che si esprime nel sapere e nel potere tardo-borghese della crisi, come destino e come tramonto, temporalmente e spazialmente vissuti e consumati dentro e attraverso l’Occidente: inizio e fine della modernità, cristianesimo e filosofia, lotta mortale e intima consonanza, dice Heidegger, del Dio cristiano e della filosofia moderna[1]. Un momento, segnato dalla pubblicazione, nel 1970, di Phänomenologie und Theologie, e un luogo, forse unici, di un tentativo di ricomposizione della ricerca heideggeriana, dentro e tra la “svolta” (Kehre) nichilista della “ricerca dell’essere” – la Seinsfrage –, che va dalla “morte di Dio” annunciata da Nietzsche e attuata dalla distruzione dell’ontoteologia cristiana, sino alla scoperta degli dèi sacrali di Hölderlin, l’“ultimo Dio” che annuncia l’“altro inizio”, il “totalmente altro” dell’“evento riappropriante”, la “differenza ontologica” come “diversità”, dischiusi nei Beiträge del 1937-1938. Una via dai diversi percorsi, che lega la sempre nuovamente riproposta problematizzazione della “ricerca dell’essere” alla sempre richiamata ma mai del tutto esplicitata sua tormentata connessione col cristianesimo, la teologia cattolica e protestante, con la sua negazione e il suo rovesciamento in una nuova teologia, tra il gioco estetico e l’arte tragica, tra la lotta politica mascherata e la legislazione poetica del linguaggio mistico, frammentaria, allusiva, tutta costruita sulla problematicità del “nuovo inizio”, dell’“e-vento riappropriante”, l’Er-eignis come l’“assolutamente diverso”[2]. E questo, dice Heidegger, “potrebbe, forse, provocare una ripresa della riflessione sul valore per molti aspetti problematico della cristianità del cristianesimo e della sua teologia, ma anche sul valore problematico della filosofia”[3].

La conferenza del 1927, Fenomenologia e teologia, che dà il titolo al volumetto pubblicato nel 1970, è un importante testo di riflessione sul rapporto tra il pensiero teologico del giovane Heidegger degli anni di Friburgo (1918-1923) e la costruzione della filosofia fenomenologico-esistenziale negli anni di Marburgo (1923-1928) che ha il suo momento centrale in Sein und Zeit (Essere e tempo). Due fasi di pensiero, sulle quali si sono diretti gli interessi della più recente storiografia heideggeriana, che sono particolarmente rilevanti per comprendere i momenti e i caratteri storicamente determinati e teoricamente decisivi dei rapporti tra ricerca teologica e ricerca filosofica.

La Kehre, la cosiddetta “svolta”, che viene generalmente indicata per designare la terza e più matura fase della e nella comprensione dell’essere, rovescia la Seinsfrage, trasferendola dall’orizzonte di senso della temporalità dell’esserci a quello più propriamente costitutivo dell’essere in quanto evento[4]. Questa riproblematizzazione della “ricerca dell’essere”, come appare nella seconda parte del volumetto citato e qui presentato in traduzione italiana, la lettera del 1964 in relazione al dibattito teologico all’Università di Drew, Madison, USA, sul tema “Il problema di un pensiero e di un linguaggio non oggettivanti nella teologia attuale”, ripropone la questione teologica non più nei termini dell’esperienza storica del cristianesimo e delle altre religioni positive, né di quella teorica della metafisica, ma, a partire dalla “morte di Dio” diagnosticata di Nietzsche, in quelli più “elevati”, diversi e più propri del pensare-poetare il sacro e la sacralità come evento, attuato da Hölderlin, al di fuori della razionalità reificante e calcolatoria dell’ontoteologia cristiana.

Ci sembra significativo, ora, fermarci brevemente su questi percorsi, per capire meglio dimensione e portata di questa esperienza heideggeriana.

2. Il Giovane Heidegger comincia i suoi studi e la sua prima produzione nell’ambito culturale e istituzionale della Chiesa di Friburgo, dal 1909 al 1915, come studente di teologia vocato al sacerdozio dei Gesuiti: dopo, venuta meno questa possibilità (sembra per una cardiopatia), come studente e come “filosofo cattolico”, frequenta scuole e collegi religiosi, assistito con borse di studio della Chiesa. La profonda fede religiosa, espressa nella vocazione teologica e indirizzata, secondo i canoni rigorosi di una chiesa rigidamente autoritaria e antimodernista, allo studio dell’ortodossia tomista della Scolastica, ispira l’apologetica cattolica dei primi scritti teologici di Heidegger, diffusi e accolti con entusiasmo negli ambienti cattolico-integralisti e ultraconservatori. L’esaltazione di valori tradizionali quali la “patria originaria”, il “suolo” e la “terra” incontaminati dal progresso, propri della comunità e della cultura contadina cattolica, quelli dell’unità e integrità della razza, si esprime polemicamente nel rigetto dell’individualismo, del liberalismo e del modernismo – la “psicologia del libero pensatore” il “luccichio ingannevole dello spirito moderno”, gli “altari dei falsi dèi”: l’imperativo, mutuato dal misticismo kierkegaardiano, “diventa Cristo!”, deve aprire la strada alla “grazia sovrannaturale”, utilizzando il messaggio salvifico dei mistici medievali, per costruire una philosophia perennis come “specchio dell’eterno”, “in nome dell’ideale di vita cristiano-cattolico”[5]. Questi temi sono già presenti nel primo scritto giovanile di Heidegger del 1910, dedicato al monaco agostiniano predicatore Abramo di Santa Clara, vissuto nel Seicento; a questi, dopo alcuni decenni, il 2 maggio 1964, egli dedica un nuovo discorso, uno dei suoi ultimi, per esaltarne il magico potere creativo del linguaggio, tacendone, significativamente, i contenuti razzisti antiebraici[6].

Formatosi alla teologia tomista e scolastica (Carl Braig, Hermann Schell, Josef Sauer, Clemens Baeumker, Engelbert Krebs e altri), il giovane Heidegger ne avverte presto l’angustia e l’inadeguatezza, così come sente presto maturare inquietudine e rivolta verso il magistero autoritario di una Chiesa sempre più schiacciata dal dogmatismo antimodernista imposto dal centro romano, responsabile di distruggere la religione cristiana sotto il peso della teologia e dei dogmi che hanno trasformato il cattolicesimo in un sistema inaccettabile, “una selva intricata, disorganica, teoreticamente confusa, dogmatica di principi e procedimenti dimostrativi per sopraffare, opprimere oscuramente e schiacciare il soggetto con autorità poliziesca, agendo in definitiva come ordinamento canonico”[7].

È significativa, e degna di una riflessione specifica, la coincidenza storica e politica tra il crollo, nel 1919, della Germania guglielmina sotto la guerra e la rivoluzione operaia, e la ribellione di Heidegger al “sistema del cattolicesimo, la cui degenerazione ad “autorità poliziesca” e a “sistema di comando” è denunciata a partire da una valutazione storica e politica della totalità del sistema istituzionale-teologico, ridotto a “ordinamento canonico” separato e contrapposto alla religiosità del soggetto umano dominato, oppresso e schiacciato dal potere di una Chiesa dissolta ormai in “autorità di polizia”. In questa valutazione della fine della missione religiosa del cattolicesimo, diventato sistema di potere chiuso e avvitato su se stesso, destinato a uccidere il soggetto religioso, confluiscono le prime esperienze etiche, religiose e culturali negative, frustranti e umilianti del giovane Heidegger cresciuto nell’assistenza culturale, ideologica e professionale di questa Chiesa, con le sofferenze dei ricatti, dei giochi di scambio, delle manipolazioni di potere, accademiche ed ecclesiastiche, della sua rapida e promettente, anche se, per questo, non sempre lineare e brillante, carriera di “filosofo cattolico” nell’Università di Friburgo, un’etichetta che egli, nel 1919, non riesce più a tollerare. La trasformazione della Chiesa cattolica in sistema di potere politico e poliziesco, legittimata da un’involuzione sempre più dogmatica della teologia, dissolta in puro ordinamento canonico e della volontà papale in puro e arbitrario comando, diviene un’acquisizione stabile del pensiero di Hiedegger che, come spiega Hugo Ott, riportando e commentando adeguatamente un brano della sua lezione su Parmenide del 1942-43, indica una continuità significativa tra l’impero romano e quello della Chiesa, “nella forma del sacerdozio (la massima espressione di potenza e violenza papale)”[8], dove, dice Heidegger, “l’‘imperiale’ appare sotto le spoglie del ‘curiale’ della curia del papa romano, la cui autorità si fonda sul carattere del comando. Il carattere del comando risiede nell’essenza del dogma ecclesiastico; perciò esso vale in modo uguale sia nel ‘vero’ degli ‘ortodossi’ che nel ‘falso’ degli ‘eretici’ e degli ‘infedeli’. L’inquisizione spagnola è una creazione dell’impero romano curiale”[9].

D’altra parte, già nel 1915, all’inizio della sua carriera accademica, divenuto libero docente, Heidegger, che pure mostra molta abilità pragmatica nell’adattarsi ai compromessi dell’ambiente accademico, scrive all’amico Laslowski di assumere a “motto per liberi docenti e quanti volessero diventarlo” un brano di una lettera di Erwin Rohde a Nietzsche del 3 gennaio 1869: “Nessuna palude è più adatta della più profonda oscurità accademica a rendere anche il temerario luccio una gonfia, pronta, tronfia rana”[10]. Che mostra la più o meno nascosta insofferenza e la valutazione negativa del giovane Heidegger, all’inizio di una carriera accademica che pure intraprende con ambizione e spregiudicatezza, in cui è costretto a integrarsi e a operare in quanto “filosofo cattolico”. La rottura, infine, col “sistema del cattolicesimo”, in gran parte responsabile della degenerazione della libertà accademica, l’adesione al protestantesimo, accolta con favore da Husserl, che aveva sempre limitato la pressante richiesta di collaborazione scientifica avanzata da Heidegger, non solo per la sua confessione religiosa ma anche per la sua posizione di potere nella gerarchia cattolica accademica, rendono possibile a Hidegger spianare la strada al suo maturo e consapevole progetto di un “filosofare in comune” con Husserl, un rapporto eccezionale che è di discepolanza e di collaborazione creativa, che Husserl accetta, consapevole delle potenzialità teoriche del pensiero di Heidegger fenomenologo della religione[11].

La fenomenologia di Husserl, a partire dalle Ricerche logiche, in particolare la VI, sull’intuizione categoriale, apre la strada alla rimessa in discussione heideggeriana dell’ontologia aristotelica, stimolata da Brentano e da Dilthey. La “ricerca del senso dell’essere”, fondata sul metodo fenomenologico di “andare alle cose stesse”, tende a scoprire nuovi significati della parola “essere” nell’originarietà storico-temporale-esistenziale della “vita”, assunta da Heidegger attraverso la fede cristiana neotestamentaria. Un rapporto, tra filosofia fenomenologica e religione cristiana originaria, che è di dipendenza e, nello stesso tempo, di separazione e ricerca problematica. All’interno della comprensione fenomenologica, la religione appare come esistenza originaria, vita, rottura col potere, con la Chiesa esistente e le sue istituzioni storiche, sentimento puro, nella pienezza del significato dei mistici medievali, di Schleiermacher, di Agostino, di Lutero, di Kierkegaard. Da qui, l’affermazione di un primato teologico nel giovane Heidegger che, scrivendo a Karl Löwith nel 1921, afferma: “io sono un teologo cristiano”[12]. Una fede, tuttavia, nella quale martella di continuo il tarlo corrosivo e liberatore della ricerca filosofica e fenomenologica del senso dell’essere: nel 1923, in un dibattito teologico, Heidegger riassume, in un suo intervento, il compito filosofico nuovo della teologia, che non è più di conoscere o di rappresentare Dio, ma di “trovare la parola che è in grado di chiamare alla fede”, scandalizzando i teologi presenti[13]. Forse, è questo uno dei momenti di più alta comprensione critica e autocritica di un pensiero che, dentro il primato teologico della ricerca di Dio, matura già un rovesciamento non solo interiore, che si esprime da un lato nella rottura col cattolicesimo integralista e reazionario, dall’altro nell’assunzione della fenomenologia come comprensione e stile di vita: la riappropriazione dell’esistenza nelle sue possibilità d’essere, che diventa il movimento stesso della Seinsfrage che rompe i limiti teologici della fenomenologia della religione da cui prende avvio, ma da cui assume la parola creativa di una nuova ripetizione poetica del sacro come cenno della “presenza o dell’assenza” dell’“ultimo Dio”, la condizione di pensabilità dell’essere come evento, secondo l’espressione formulata nei Beiträge. Per questo, ribadisce Heidegger, “senza questa provenienza teologica mai sarei giunto sul cammino del pensiero. Ma la provenienza resta sempre futuro”[14].

3. La Seinsfrage riscopre il carattere di “problematicità” della cristianità e della filosofia, dice Heidegger, nel movimento reale della ricerca del senso dell’essere, all’interno dell’esperienza storica del cristianesimo originario, in quell’originale progetto del kierkegaardiano “diventa Cristo!”, su cui agisce la comprensione fenomenologica della Faktizität, l’effettività-mia-propria dell’esistenza-mia-propria, il contenuto proprio dell’esserci, dell’esistenza singola mia, finita, temporale, dolorante, angosciosa, i caratteri dominanti del primo progetto “ermeneutico” di ontologia fenomenologico-esistenziale che anticipa Sein und Zeit e trova espressione nell’Ontologie (Hermeneutik der Faktizität), del 1923 (Ontologia. Ermeneutica della effettività)[15]. Tesa tra la storicizzazione diltheyana dell’Erlebnis e la comprensione fenomenologica dell’“intenzionalità” husserliana, la progettualità del “diventare Cristo” di Kierkegaard è ricondotta, tradotta e trasformata nella riappropriazione dell’essere e dei modi di essere dell’esistenza singola, l’esserci. Questa riappropriazione del carattere storico-ontologico-esistenziale del cristianesimo, ricondotti da un lato all’originarietà storica del Nuovo Testamento, dall’altro all’esperienza vissuta dell’uomo nella totalità della sua esistenza “effettiva”, è il tema costante delle ricerche del giovane Heidegger e delle lezioni di Friburgo sino al 1923, che trovano sistemazione nell’Ontologie, ma che sono la base, anche, del più grosso lavoro di ricerca e di costruzione fenomenologico-ontologica degli anni di Marburgo, sino al 1928. La più recente storiografia heideggeriana ha volto i suoi interessi a queste due fasi, cogliendo, particolarmente nella prima, quella di Friburgo, verifiche del carattere religioso e teologico del pensiero di Heidegger, e questo sia per riconfermare, esaltandolo, il significato religioso del suo pensiero, sia per rafforzare la valutazione negativa del nesso con la sua più tarda involuzione verso il nazismo[16]. L’uno e l’altro elemento, quello religioso e quello politico, agiscono spesso, in realtà, in modo diverso e a volte inverso nel movimento della Seinsfrage. E questa, nella costruzione del metodo della comprensione decostruttiva, attacca il dogmatismo e l’integralismo del cattolicesimo; contrapponendo al potere istituzionalizzato della Chiesa dei papi, del sacerdozio, dell’ordinamento canonico, la religiosità originaria della cristianità primitiva dell’apostolo Paolo, di Agostino, dei mistici medievali, del giovane Lutero, di Schleiermacher, di Kierkegaard; liberando il contenuto ontologico-esistenziale della cristianità del Crocifisso dai residui e dai rivestimenti ontoteologici che pure persistono nel pensiero religioso di questi pensatori, smembrando, dissodando e decostruendo l’unità fenomenologico-esistenziale dell’essere dell’esserci come suo carattere “effettivo”, è il movimento della Seinsfrage, dentro, attraverso e contro anche l’esperienza storica originaria della Croce.

4. Questo percorso ha anche un profondo radicamento sociale, economico e culturale, nello sconvolgimento e nello sradicamento della Germania postguglielmina, postbellica e postrivoluzionaria, nella quale le trasformazioni economiche e sociali connesse alla ristrutturazione e alla razionalizzazione di massa del capitalismo e dello sviluppo dello Stato sociale di diritto, di una democrazia parlamentare bloccata, producono diffusa inquietudine, spaesamento e crisi d’identità proprio nei ceti sociali medio-alti, in particolare in quelli intellettuali, punti di forza conservativa e ideologica del lavoro qualificato, contadino e operaio medio-alto, colpito direttamente dalle nuove ondate di proletarizzazione legate alla razionalizzazione di massa[17]. Un processo che, a fasi diverse e progressivamente intensive, si abbatte sulle roccaforti del potere contadino-agrario-cattolico e del lavoro qualificato, particolarmente diffuso nelle regioni meridionali a più forte integrazione etnico-religiosa, attraverso il dominio quasi assoluto di una Chiesa feudale legata al potere tradizionale-patriarcale incentrato sull’unità della patria, della religione degli avi e della famiglia. Il nuovo industrialismo di massa e le razionalizzazioni progressive del sistema della cosiddetta “fabbrica costituzionale”, dominata dal lavoro massificato, sindacale, partitico, distruggono le basi stesse del lavoro qualificato, artigianale-semimanifatturiero e contadino, abbattono il sistema tradizionale-patriarcale che subordina l’individuo all’autorità assoluta della famiglia, della scuola e della Chiesa monarchico-feudale, emancipando e sovvertendo l’ordine conformista e tradizionale, liberando il mercato del lavoro di massa, particolarmente femminile, colpiscono direttamente l’identità patriarcale, della patria, della religione e della famiglia, basi istituzionali della morale cattolica e del sapere tradizionale, cemento di un ordine gerarchico che dipende da un centro assoluto, la coscienza, fonte dell’autorità e della formazione individuale, sociale ecc. La massificazione del lavoro dissolve il primato e l’autonomia aristocratica dello “spirito”; il Geist imprenditoriale del lavoro qualificato-professionale è sostituito dal sistema razionalizzato, taylorista e fordista, della fabbrica “costituzionale” e di massa e dalla democrazia industriale e contrattualistica dello Stato sociale di diritto, che estende la forma di merce a tutta la società. Uno di questi valori più forti, l’“anima”, fondamentale supporto etico e ideologico della cultura e della società cristiano-borghese, perde la propria identità e il proprio significato, liberando forze e valori diversi, che nell’immediato appaiono trascinati nel crollo tragico della coscienza, ma che ispirano l’impegno etico-sociale nuovo dell’arte e della letteratura, con Thomas Mann, Lukács, Musil, con Freud e Nietzsche e gli psicanalisti rivoluzionari che nell’età di Weimar, nell’Istituto di ricerca sociale di Francoforte, con Horkheimer, Adorno e Marcuse ecc., estendono alla totalità del sistema sociale, all’io, alla personalità, alla sessualità, campi e orizzonti nuovi di analisi e di lotta contro la malattia dell’alienazione.

Questo processo si sviluppa anche attraverso il percorso teorico di Heidegger, protagonista sia del sistema dominante, entro cui avviene la sua formazione, sia del crollo di quel sistema. La rottura col cattolicesimo porta il giovane Heidegger a rovesciare la sua posizione rispetto al sistema di potere di cui ha assimilato l’ideologia integralista della patria, della religione e della famiglia, quale appare nei suoi primi scritti a carattere ideologico, in particolare nel discorso sulla figura di Abramo di Santa Clara. La perdita della patria, la distruzione della famiglia e della religione, lo spaesamento, l’abbandono diventano i caratteri dominanti della condizione umana che il pensiero di Heidegger trasferisce all’interno dell’esserci come strutture esistenziali costitutive dell’essere-nel-mondo, della cura, della deiezione, della colpa, del dolore, dell’angoscia e della morte. Un’analisi che il giovane Heidegger immette nella ricerca religiosa della cristianità originaria neotestamentaria, attraverso l’ermeneutica storica di Dilthey, a partire dal “sacro” di Schleiermacher, in alternativa al cristianesimo mondanizzato della Scolastica e dell’hegelismo; che trasferisce, dopo, nella ricerca dell’essere, la Seinsfrage, nell’esistenza. Attraverso l’ontologia ermeneutica e fenomenologica della cristianità, l’alienazione sociale, storica ed economica viene compresa nella costituzione esistenziale dell’esserci come orizzonte di possibilità della ricerca dell’essere.

5. Questo passaggio avviene per la prima volta nel corso friburghese del semestre invernale 1920-1921, Einführung in die Phänomenologie der Religion (Introduzione alla fenomenologia della religione), un commento alla I Lettera ai Tessalonicesi dell’apostolo Paolo. Il quale, parlando ai Tessali, pagani divenuti cristiani, indica loro i contenuti della vita cristiana, tra i quali particolare rilevanza è data al “ritorno” del Signore come l’evento più straordinario, tale da essere per loro il “futuro”, inteso non cronologicamente come fatto calcolabile e determinabile oggettivamente, ma comprensibile solo in quanto Kairòs, attimo o momento della decisione che dispone ad assumere il futuro come rivelazione e avvento straordinario[18]. La comprensione fenomenologica del Kairòs ne coglie la determinazione fondamentale, la sua effettività, come costitutiva del carattere decisivo del futuro come essere dell’esistenza da cui dipende l’essere stesso, al di là e indipendentemente dal contenuto religioso della decisione stessa. Il Kairòs, il tempo della decisione da cui dipende l’attuazione della vita stessa del singolo, attraverso la venuta del Signore, è il momento decisivo dell’esistenza cristiana originaria, il centro dalla parusia come ritorno di Dio all’uomo e dell’uomo a se stesso, l’autocomprensione dell’uomo dal e per mezzo del futuro come senso della decisione da cui e per cui si decide la vita dell’uomo.

Paolo non è cattivo profeta, che possa indicare ai suoi fratelli di fede tempo e ora della parusia.

“Sul tempo e l’ora, fratelli, noi non abbiamo bisogno di scrivervi. Voi stessi lo sapete già: come un ladro nella notte, così viene il giorno del Signore. Se desiderate pace e sicurezza, la rovina vi colpirà all’improvviso come il dolore della nascita colpisce le gestanti e voi non troverete scampo. Ma voi, fratelli, non restate all’oscuro che quel giorno vi possa colpire come un ladro. Voi tutti, infatti, siete figli della luce e del giorno; noi non apparteniamo alla notte e all’oscuro. Non fatevi addormentare, come altri fanno, ma siate vigilanti e desti. Di notte gli assonnati dormono e gli alcolizzati bevono. Noi invece, che apparteniamo al giorno, vogliamo essere desti e sobri, coperti dalla corazza della fede e dell’amore e dall’elmo della speranza del sacro”[19].

Il futuro in quanto Kairòs, cioè attimo e decisione nello stesso tempo, è la possibilità di essere, non prevedibile né calcolabile come un fatto necessario e oggettivo, ma comprensibile solo come decisione e scelta, attesa e anticipazione, una possibilità, la possibilità decisiva per noi, perciò un evento che ci “minaccia”, “per la vita e per la morte”, da cui per noi dipende “il tutto”, “il sacro e il non sacro”, “inappellabile”, la “verità del decidere[20].

Se l’uomo ora tenta di afferrare in qualche modo questo evento indisponibile, sul quale è posta la sua vita, allora con una tale determinazione egli assume proprio l’autentica provvisorietà e indisponibilità del momento. Il momento, infatti, non può essere propriamente “atteso” o “afferrato”, perché altrimenti la sua indisponibilità sarebbe dissolta nella visione di una “rappresentazione” che la blocca nel futuro come qualcosa di presente che si conosce nel suo fondamento. Chi, da una distanza rassicurata, fissa in una lontananza distanziata un tale avvenire, dimentica l’essenziale. “se voi desiderate pace e sicurezza, la rovina vi trascinerà all’improvviso”. Ogni tentativo di oggettivare l’inattendibile perciò sempre inatteso avvenire del momento, anche se solo ‘metodicamente’, provvisoriamente e a titolo di prova, trasforma l’essenziale enigmaticità dell’evento in una determinazione di contenuto – e sia pure questo ancora solo ‘ideale’[21].

L’“enigma” del futuro, come momento di una decisione indeterminata del possibile, imprevedibile, incalcolabile, irrappresentabile, ma che ci minaccia con l’angoscia di una rovina incombente, non è nulla di apocalittico, ma la condizione, propriamente attuata nell’“atteggiamento” della comprensione fenomenologica destrutturante, dell’essere-desto, il risveglio dal sonno dell’abbandono alle cose, lo stato di continua vigilanza, l’essere pronto a cogliere il possibile in ogni momento, a decidere, a capire, a scegliere, “un rivolgersi radicale alla vita effettiva[22].

E Heidegger qui, cogliendo nel messaggio paolino l’accesso al senso originario della vita come ritorno del possibile, il futuro, all’esistenza, riappropriazione di sé, libera l’esistenza dalla stessa necessità della mediazione cristiana, riducendo il mistero cristiano della parusia all’atteggiamento dell’autocomprensione esistenziale come compimento della sua effettività, il significato salvifico del Cristo, la ripetizione-eterno ritorno dell’esistenza come possibile.

La II Lettera dell’apostolo Paolo ai Corinzi offre nuovo materiale a questa interpretazione fenomenologico-esistenziale del carisma cristiano di Heidegger, che si sofferma nell’analisi della materialità esistenziale della finitudine espressa nella “spina nella carne”, il cristianesimo tragico di Kierkegaard, “sofferenza” è “debolezza” dell’esserci, la cui comprensione e appropriazione sono il rivolgimento “alla fatticità”[23].

I caratteri esistenziali della vita emergono attraverso la comprensione fenomenologica della religiosità paolina liberati non solo dal velo mistico del cristianesimo ma, innanzitutto, dalle deformazioni dottrinarie, metafisiche e teologiche, che hanno accompagnato e dissolto il contenuto dell’esperienza originaria della vita protocristiana neotestamentaria, per far rivivere, “esplicandola”, l’autenticità nascosta e deformata dell’“effettività dell’esistenza”. È il contenuto del corso Agostino e il neoplatonismo, tenuto da Heidegger nell’estate del 1921. Qui Heidegger riscopre l’“effettività” dell’esistenza reale nell’esperienza cristiana di Agostino come ricerca della beatitudine della verità, della libertà, dell’angoscia, della morte, dell’inquietudine, del dolore[24]. Nello stesso tempo, Agostino occulta questo “compimento” umano dell’esistenza cristiana, sovrapponendogli una metafisica neoplatonica che svuota Dio della realtà dell’esistenza (la sua “inquietudine”), riducendolo, con la cosiddetta prova ontologica, a “essere”, “bonum”, “summum” ecc. nell’astratta metafisica fruitio Dei[25].

Anche Lutero, aggiunge Heidegger, nelle tesi giovanili della Disputatio di Heidelberg del 1518, assume nella teologia della croce l’“esperienza reale della vita” e la “giustificazione per la sola fede” come criteri di orientamento esistenziale che, tuttavia, nella maturità, subordina a una nuova scolastica.

L’importanza di questi scritti giovanili di Heidegger non sta solo nell’anticipare contenuti e metodologie dell’opera che conclude questa fase di pensiero, Sein und Zeit, nel 1927, ma anche, per quello che si è detto, per la radicale problematizzazione della ricerca filosofica dell’essere e della cristianità, che è la “lotta mortale”, ma anche, contemporaneamente, la profonda “coesistenza” di teologia e filosofia, di cristianesimo e filosofia. Che radicalizza, trasferendoli all’esistenza, i caratteri problematici dell’esperienza storica cristiana originaria, sottoponendoli all’elaborazione critica e destrutturante della Seinsfrage fenomenologico-esistenziale, distruggendone i caratteri teologico-metafisici ed etico-religiosi, formalizzandone i modi di essere attraverso e nelle strutture esistenziali trascendentali dell’esserci.

Il centro di quest’analisi è l’interpretazione del Kairòs che, privato della relazione paolina con la parusia, nella comprensione destrutturante dell’analisi fenomenologica, appare come temporalità ontologica, l’essere che viene dal e come futuro, l’essere del futuro, dove inquietudine, dolore, angoscia dell’esistenza possibile sono compiuti nella e attraverso la decisione del compimento della finitudine dell’esserci.

6. La conferenza del 1927, Fenomenologia e teologia, e l’opera maggiore che completa le ricerche heideggeriane degli anni di Marburgo (1923-1928), Essere e tempo, a partire già dalla conferenza del 1924 su Il tempo, ridefiniscono in forma più consapevole e sistematica, per così dire, i rapporti problematici tra filosofia e teologia cristiana, all’interno del primato della Seinsfrage. Rispetto a questa la teologia si pone ormai come una scienza particolare relativa a un campo specifico della sfera ontica di “ciò che è”, nella stessa posizione delle altre scienze e settori ontici, entro cui la ricerca del senso dell’essere, compito della filosofia fenomenologica, ha una centralità assoluta. La teologia è così schiacciata da e tra la metafisica aristotelico-scolastica – scienza dell’essere come pura presenza, in quanto essere, rappresentazione, concetto, ecc. – e la scienza moderna, come rappresentazione di un oggetto, calcolabile, utilizzabile. La teologia è così posta sullo stesso piano di ogni altra scienza, la fisica, la chimica, la storia, come conoscenza di un oggetto determinato, Dio al pari della natura, dello spazio, ecc., chiusa nell’ambito reificato dell’“ontico” e dell’“oggettivazione” tecnico-scientifica e della deformazione logico-rappresentativa, il terreno dell’alienazione e reificazione che frantuma l’unità dell’essere nella varietà logica e pragmatica di oggetti rappresentati e logicamente costruiti come concetti uniti solo dalla valutazione pratica e dalla pianificazione. Un processo di razionalizzazione entro cui la realtà delle cose è determinata in modo parziale e deformato attraverso la rappresentazione logico-concettuale del loro “essere presente”. Una riduzione della varietà di significati della parola “essere” che Aristotele, pur mostrando consapevolezza di tale problematicità, conduce nella convinzione che la “presenza” sia il suo significato naturale più proprio, che la storia della metafisica moderna, in seguito, ha assunto in modo assoluto, estendendolo e trasferendolo, a partire dal neoplatonismo, alla teologia, in modo particolare a quella cristiana. Che ha fatto della “prova ontologica”, cioè del concetto di essere come presenza, il presupposto e il supporto dell’esistenza di Dio: il significato della morte di Dio in Nietzsche, è il crollo di questa secolare illusione e dimenticanza metafisica dell’essere che il nichilismo ha svelato, rimettendo in discussione il senso dell’essere e la possibilità di superare la sua deformazione metafisica. La Seinsfrage, la ricerca dell’essere nelle sue possibilità dimenticate, escluse, rimosse e occultate dallo sviluppo secolare dell’unidimensionale sapere metafisico-teologico, borghese e cristiano, tutto schiacciato sulla concezione aristotelica dell’essere presente[26], a partire dall’autocomprensione esistenziale della temporalità come temporalizzazione dell’esserci, è resa possibile dalla fine del primato del tradizionale sapere metafisico-ontologico-teologico della “coscienza”, che nella storia del cristianesimo è la “morte di Dio”, la fine e la scomparsa del Dio dell’ontologia e della metafisica, la possibilità storica e teorica di una liberazione fenomenologica ed esistenziale delle “cose stesse” come molteplicità di significato dell’essere, sua diversità e differenza. Che Heidegger definisce, nei percorsi che seguono Sein und Zeit, come “evento” (Ereignis).

Nella conferenza del ’27, Fenomenologia e teologia, la scienza e la teologia in quanto scienza, cioè il cristianesimo, sono direttamente coinvolte in quella linea di sviluppo nichilistico dell’alienazione e della reificazione che si esprime nella “morte di Dio”. Nello stesso tempo, sono punti di riferimento di una ricerca, di un tentativo, di un dibattito sul valore e sul significato della scienza e della scientificità che, con i nuovi strumenti logici ed epistemologici della fenomenologia e dell’analitica esistenziale, riescono a riprogettare la possibilità di un rinnovamento del sapere, a partire, anche, da quel rivoluzionamento scientifico-culturale che la fisica, la storiografia e la teologia devono potere portare avanti, all’interno della distruzione filosofica del primato della coscienza[27]. Interlocutore assiduo di Heidegger durante gli anni di Marburgo è il teologo Bultmann, il quale, d’altra parte, considera l’ontologia fenomenologica di Heidegger un punto di partenza filosofico indispensabile del programma di rinnovamento critico della teologia cristiana che egli fonda sulla “demitizzazione” del cristianesimo evangelico, così come Bultmann è per Heidegger il teologo che, al pari di Einstein nella fisica, ha portato la teologia moderna a livello di una nuova scientificità, una razionalizzazione neoilluminista, che apre una comprensione adeguata delle sue problematiche[28]. Nello stesso tempo, pur rovesciando la direzione della Seinsfrage heideggeriana, Bultmann con Barth, Gogarthen e la teologia protestante in particolare, ma anche importanti settori di quella cattolica riformata, l’assumono come metodo per una riproblematizzazione scientifica del cristianesimo, a partire proprio dalla nietzschiana della “morte di Dio”. Posizione che Heidegger ha sempre respinto, rifiutandosi di ammettere che il “sacro”, intorno a cui ruota la nozione di “evento”, che domina l’essere a partire dai Beiträge, sia leggibile in termini di “nuova teologia”[29], anche se può portare ai e influire sui processi di rinnovamento della teologia contemporanea, così come testimonia la “Lettera” conclusiva di Fenomenologia e teologia. Il rinnovamento del sapere scientifico, a cui Heidegger pensa nella conferenza del ’27, è l’espressione di una fiducia nella capacità autonoma e critica delle scienze moderne naturali e storico-sociali, in particolare anche della teologia, di costruire le condizioni valide entro cui la filosofia come comprensione fenomenologica dell’essere dell’esserci possa rivoluzionare il sistema dato del sapere detronizzando il primato della “coscienza” a favore dell’“essere”.

Con l’adesione al nazionalsocialismo, riconoscendosi nella linea rossa delle S. A., della quale condivide, nel ’33, con l’elezione al rettorato, il successo e, con le dimissioni, la rovina, Heideggr sembra diretto a “porre in opera” tutta la potenza pratica e politica della forza decisionista e volontarista che egli attribuisce al “sapere spirituale”, visto come tutt’uno con l’essenza popolare e nazionale della germanicità: che “pone in opera” l’idea della costituzione spirituale ed etica della statalità nazionale del popolo e della cultura germanica, che Heidegger porta con sé dal discorso giovanile su Abramo di Santa Clara sino a Essere e tempo e che, con quella che egli ritiene la rivoluzione nazista, pensa di portare a realizzazione pratica nel progetto di “autogestione” sociale e politica del sistema nazionale del sapere-potere della azione tedesca, espresso nel discorso del rettorato[30]. Il fallimento di questo progetto di rivoluzione culturale, che affida agli intellettuali, studenti e docenti, la funzione di guidare l’“autogestione” del sapere per restituire alla scienza il suo potere, per la contraddittoria canalizzazione in un movimento, quello nazista, per sua natura controrivoluzionario, trascina con sé la possibilità e la speranza di fare della scienza un sapere “spirituale”, una forza sociale organizzata come comunità nazionale e statale e una potenza emancipatrice di guida e di comando della “totalità dell’essente”[31]. Già nella riflessione autocritica della Beiträge, la scienza appare direttamente coinvolta nella massificazione e reificazione universale della condizione umana che si esprime nel destino e nel potere di comando assoluto della tecnica, non forza di illuminazione ma oscuramento e manipolabilità.

7. L’abbandono del cristianesimo, così almeno sembra, e il fallimento del progetto politico rivoluzionario dell’“autoaffermazione dell’università tedesca”, provocano la grave crisi depressiva da cui, nel 1937, nascono i Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) [Apporti alla filosofia (Dall’evento)], l’opera di tormentata frammentazione del nuovo pensiero della crisi che Heidegger decide di non pubblicare sino alla morte[32]. Che è, anche, un’analisi fondamentale della crisi e della rovina nichilistica della nuova società di massa, del sistema capitalistico e statuale di massa degli anni Trenta, entro cui è inserita l’analisi critica della metafisica ontoteologica occidentale, che ruota intorno al pensiero di Nietzsche, punto di riferimento fondamentale, anche se ambiguamente teso tra lealismo e ribellione all’ideologia del regime. Il dissenso di Heidegger, silenzioso e interiorizzato, troppo, affidato solo a questi scritti tenuti rigorosamente segreti sino alla morte, sembra esprimersi nella forma altrettanto silenziosa e interiorizzata dell’apparizione del sacro e della sacralizzazione, lo spazio emergente dentro lo sprofondarsi della totalità dell’essente nel nichilismo vincente della società di massa, che produce l’immagine del nuovo “ultimo Dio”, non la fine ma l’inizio di una nuova fase storica, l’evento riappropriante che annuncia “il nuovo”, “cenno” o “accenno” all’“av-vento” dell’“assolutamente altro”[33]. Se l’ontoteologia cristiana ha dissolto Dio nella e attraverso la sua comprensione metafisica come “essere supremo”, causa sui, dissolvendo il sacro nella universale sdivinizzazione del mondo prodotta dal domino nichilistico della tecnica imperante – il Gestell –, la condizione di “abbandono dell’essere”, l’“oscuramento” generati dal “rifiuto” dell’essere di essere, sono in se stessi l’apertura di una nuova, “assolutamente altra”, possibilità di essere, il “diverso” come “evento riappropriante” (Er-eignis). Non per una dialettica del divenire hegeliano, ma per la realtà esistenziale, operante nella condizione e struttura stessa dell’esserci, rovesciamento dell’essere stesso, senza e fuori di ogni senso, nel suo abbandono totale, nel suo essere rifiuto e negazione che, in questa negatività, si riappropria di sé come “diverso”, “differenza”, “assolutamente altro”, nozioni che si legano a quella di “differenza” già sviluppata in Che cos’è la metafisica? del 1929 (J. Derrida).

Contro e nel dominio totale della massificazione e della manipolazione pianificatrice, “il sacro” è l’unica protesta del singolo, che in esso trova lo spazio in cui l’“ultimo Dio” si mostra come “cenno”, “accenno”, “sintomo” del “diverso” in quanto “evento dell’essere”, o “essere dell’evento”. La lotta contro il potere presente è così tutta espressa nell’interiorizzata solitudine di elevazione spirituale, il sacro come contro-potere, resistenza e rivolta interiorizzate contro l’imbarbarimento, “sintomo” e “accenno” a una possibile rinascita contro la disperazione e la follia.

Il sacro, qui, non è un ritorno al Dio del cristianesimo, ma l’apertura di una possibilità di essere diversa e nuova, l’essere come evento riappropriante dell’assolutamente altro, che è resa possibile dalla morte del Dio cristiano annunciata da Nietzche e che già nel 1935 Heidegger “legge” negli Inni di Hölderlin, Der Rhein e Germanien. Il Reno è il fiume sorgente della verità e lo spirito poetico che rivela il sacro come disvelamento dell’essere[34]; in Germania la poesia, creazione del sacro, lotta contro il “noi stessi” della quotidianità reificata, nell’alienazione dell’oscuramento del cielo e della terra e nell’abbandono della patria estraniata, mostrandosi come “linguaggio degli dèi”, un “dire nella forma del rendere-aperto-mostrante”: “Gli dèi accennano solo perché essi sono”; “la poesia come l’accenno avvolto nella parola”; “poetare è fondazione… Il poeta è il fondatore dell’essere”; ma anche, l’“accenno degli dèi” è “il linguaggio del popolo”, “fondato nell’esserci storico del popolo”; “poetare – conservare il cenno degli dèi – fondazione dell’essere”[35]. La poesia fonda in quanto istituisce storicamente, come linguaggio e come storia, la vita concreta della comunità, “interiorità” in quanto “natura”, “il dire se stesso della natura”[36].

In questo orizzonte, il sacro, mediazione tra gli uomini e gli dèi, mostra la possibilità di un essere diverso e altro rispetto all’essere calcolabile e utile del pensiero metafisico; un essere altro la cui origine e possibilità sono proprio l’origine e la possibilità di quel pensiero e linguaggio non calcolanti, che è il tema trattato da Heidegger nella lettera del ’64 qui pubblicata dopo lo scritto Fenomenologia e teologia. Che ci riporta ai Beiträge, il serbatoio dei vari percorsi heideggeriani, in particolare di questa visione poietica del sacro espressa per la prima volta da Hölderlin nella caduta storica dell’esserci in una condizione di povertà e di bisogno, di “mancanza degli dèi”, che Heidegger pensa nella crisi degli anni trenta. Quando “l’età del ‘sistema’ è passata” e “non è ancora giunta quella della costruzione della forma essenziale dell’essente. Nel frattempo, la filosofia deve aver fornito un elemento essenziale nel passaggio a un altro inizio: il progetto, cioè l’apertura fondante del tempo-gioco-spazio della verità dell’essere”, che apre l’essere in quanto passaggio all’evento riappropriante, Er-eignis: per “decidere, a partire dalla sua propria legge, sul senza futuro, cioè su ciò che è solo ‘eterno’ e sul futuro, cioè su ciò che avviene in modo unico”[37]. Un tentativo di pensare la verità dell’essere come “movimento del pensare” dentro e come riappropriazione dell’essere come evento[38]. Traccia e “sintomo” di questo pensare è l’“ultimo Dio”, “del tutto diverso da quello passato, innanzitutto da quello cristiano”, che vuol dire, anche, “il tutt’altro rispetto al passato, innanzitutto ciò che è cristiano”[39]. E l’“ultimo Dio” non è il Dio cristiano del passato, cioè della fine, ma il Dio che non è, che aspira e ha bisogno di essere, che è da venire, “passaggio all’altro inizio”, “cenno”, “accenno” e “sintomo”, il “tremore” di una condizione di estrema problematicità, la “divinizzazione del Dio degli dèi”, “dalla quale avviene l’assegnazione dell’esserci all’essere, come la fondazione della verità di questo”[40]. L’ultimo Dio è il Dio che non c’è, che non è, ma che ha bisogno di essere e di avvenire, sorto sulle ceneri del Dio cristiano. Il rifiuto del cristianesimo nasce sul rifiuto del potere totale, storico, sociale e politico, il potere dell’essente nella sua totalità con cui il Dio cristiano si è identificato con l’essere, si è annullato: l’identità ontoteologica del Dio cristiano, con l’essere e col potere dell’essente, è stata la morte di Dio. Ridotto a platonismo, “valore”, “senso”, “cultura”, “visione del mondo”[41], il cristianesimo è diventato giudaismo, liberalismo e bolscevismo, forme proprie del “dominio della ragione”, “emancipazione delle masse”, scienza, tecnica e industria[42]. E sulla morte del Dio cristiano, sull’imbarbarimento dell’uomo dissolto nella pianificazione di massa, l’ultimo Dio apre il sacro come l’indicazione di un nuovo percorso di riappropriazione dell’essere, attraverso la Kehre, la svolta del rovesciamento, la decisione dell’abbandono, come salto e assunzione dell’abisso della verità dell’essere, che si disvela, nell’evento, come orizzonte spaziale e temporale, come gioco del possibile, il “diverso” e l’“assolutamente altro”. “Nuovo inizio”, comprensibile solo a partire dal “salto dell’uomo nell’esserci”, dal quale “il Dio attende la fondazione della verità dell’essere”, dentro e attraverso il lasciar essere l’essere, l’abbandono della trasfigurazione e della trasformazione, attraverso la negazione dell’essere-essente come potere, come sistema, come dottrina, liberazione del poter essere[43]. Il sacro, il divino, l’ultimo Dio, come bisogno e aspirazione e lotta per l’essere, l’essere-evento come essere l’essere, lasciar essere l’essere, negazione del potere, contro-potere, anarchia come negazione dell’identità, affermazione e lotta per la diversità e la differenza, liberazione del possibile. Un processo che facilmente il pensiero calcolante deforma, mistificando la realtà dell’“ultimo Dio” nel feticcio di un Dio “che si deve attendere”: “solo difficilmente e lentamente” il pensiero metafisico può “conoscere l’Altro” e può comprendere che

il Dio non appare ancora nello “stato di coscienza”, “personale” e in “forma di massa”, ma solo nell’abissale “spazio” dell’essere. Nessun “culto” e “chiesa” sinora esistita e futura in generale possono preparare essenzialmente la lotta del Dio e dell’uomo nel mezzo dell’essere. Infatti deve essere innanzitutto fondata la verità dell’essere stesso ed è per questo che diventa possibile assumere la creazione di un altro inizio. Quanti pochi sanno, perciò, che il Dio attende la fondazione della verità dell’essere e, perciò, il salto dell’uomo nell’esserci. Al suo posto, sembra invece come se l’uomo debba attendere il Dio. E forse è questa la forma più ingannevole della più profonda mancanza di Dio e lo stordimento dell’impotenza di sopportazione dell’avvento di ogni futuro… dell’essere, che offre innanzitutto un luogo all’inserimento dell’essente nella verità e gli produca il diritto di stare nella più grande lontananza nell’avvento del Dio, diritto, la cui assegnazione avviene solo come storia: nella trasformazione dell’essente nell’essenzialità della sua determinazione e nella liberazione dell’equivocità delle macchinazioni che, sovvertendo ogni cos, dissolvono l’essente nell’utile[44].

Il problema, allora, non è di “attendere il Dio”, ma di liberare l’essere come possibilità del diverso, differenza, lasciandolo essere al di fuori e contro le sue forme di dissoluzione nelle macchinazioni del potere e nella pianificazione utilitaristica della manipolazione di massa.

Nell’evento, Dio non è né soggetto né oggetto di un “sistema” o di una “dottrina”[45], tanto meno è riducibile a teismi di vario genere:

L’ultimo Dio ha la sua più profonda singolarità e si trova al di fuori di quella falsa determinazione compresa nelle espressioni “Mono-teismo”, “Pan-teismo” e “A-teismo”. “Mono-teismo” e tutte le forme di “teismo” esistono si dall’“apologetica” giudaico-cristiana, che ha il suo presupposto nel pensiero della “metafisica”. Con la morte di questo Dio vengono meno tutti i teismi. La molteplicità degli dèi non dipende dal numero, ma dalla ricchezza interna del fondamento e dell’abisso degli attimi istantanei dell’illuminarsi e dell’occultarsi dell’accenno dell’ultimo Dio. L’ultimo Dio non è la fine, ma l’altro inizio di possibilità smisurate della nostra storia. Per sua causa – perciò – la storia sinora esistente non deve finire, ma deve essere portata alla sua fine. Noi dobbiamo illuminare i suoi fondamentali caratteri nel loro tramonto e produrre la disponibilità. La preparazione dell’apparizione dell’ultimo Dio è l’estremo rischio della verità dell’essere, in forza del quale soltanto è possibile riportare l’essente all’uomo. La più grande vicinanza dell’ultimo Dio avviene allora quando l’evento in quanto in negarsi esitante giunge a rafforzarsi nel rifiuto. Questo è qualcosa di essenzialmente diverso dalla mera assenza. Il rifiuto come proprietà dell’evento si può provare solo a partire dall’essenza originaria dell’essere, in quanto rispende nel pensiero dell’altro inizio[46].

E l’apparizione dell’“ultimo Dio” non è un fatto “tranquillo”, né una “liberazione, cioè, nel suo fondamento, dissoluzione dell’uomo”, ma un passaggio, il “turbinio della svolta”, l’“inserimento dell’essenza originaria (fondazione dell’esserci) nell’essere stesso: il riconoscimento dell’appartenenza dell’uomo all’essere attraverso il Dio, l’ammissione del Dio che non concede sé e la sua grandezza, perché ha bisogno di essere”, uno sconvolgimento totale che è lotta tra e del Dio e dell’uomo, “lotta tra il Dio e l’uomo, tra l’apparire del Dio e la storia dell’uomo”, una lotta che sconvolge e attraversa la verità come disvelamento dell’essere nella e dalla sua negazione, il rifiuto, che apre le sue possibilità – l’essere cancellato nello “squadernarsi” della lotta tra cielo e terra, tra mortali (l’uomo) e gli dèi. Dove la “fondazione della verità dell’essere” richiede il

riconoscimento e la conservazione dell’ultimo Dio […] non solo una tavola di comandamenti ma, cosa più originale e più essenziale, […] un’autentificazione dell’essente; un’autentificazione, in cui innanzitutto l’essente, proprio nella semplicità della sua essenza riconquista (come opera, segno, cosa, azione, sguardo e parola), faccia fronte al dispiegarsi dell’essere davanti a lui, non lo ponga in modo inerte, ma lo faccia governare come movimento[47].

E per preparare questa lotta e l’apparizione dell’ultimo Dio, “popoli e Stati sono troppo piccoli”, perché “solo i grandi e occultati singoli creeranno il silenzio per l’apparizione del Dio”[48].

Quest’immagine dell’ultimo Dio – complessa, tortuosa, frammentata tutta dentro la spirale abissale di questo percorso drammatico di un “altro inizio”, che ha bisogno di essere analizzata, determinata e chiarita ulteriormente –, simbolo dell’impotente ricerca heideggeriana di un’alternativa alla società di massa degli anni trenta, anche al potere nazista, tutta racchiusa nell’immagine jüngeriana dell’“operaio” e del “soldato”, ma, ciononostante, espressione di rivolta, aspirazione a contrapporsi, a negare e a superare il potere esistente, avrebbe e/o potrebbe contrapporsi all’Olocausto, rottura o continuità del potere moderno di massa? La forza tutta teologica della parola “Dio”, con cui Heidegger attacca la potenza di crescente imbarbarimento dell’uomo che “può ancora per secoli depredare e devastare il pianeta con le sue macchinazioni”[49], è forse diventata troppo debole per questo compito. Il suo troppo diffuso abuso, contro e indipendentemente dal percorso heideggeriano, attraverso le sue più diverse mistificazioni e manipolazioni, va nella direzione opposta a quella heideggeriana, è restaurazione e apologia ontoteologica del potere esistente, razionalità e irrazionalità del dominio dello stato presente – il Gestell, contro e al di là del quale la Seinsfrage si propone come ricerca e lotta di riappropriazione dell’“essere al di fuori, contro e al di là del destino, inevitabile e necessario, di dominio dell’essere presente”, sia pure nell’ambiguità teologico-politica della “presenza o dell’assenza di un Dio”. Che non dischiude, forse, la verità di quel passaggio, delineato da Marx nei Grundrisse, la lotta universale tra espropriazione e riappropriazione, tra la “preistoria” dell’imbarbarimento nella guerra civile dispiegata e la liberazione nel General intellect, dove il comunismo non si pone più come ideale o valore, ma come movimento che rovescia lo stato di cose presente?[50]


[1] M. Heidegger, Phenomenologie und Theologie, in Id., Wegmarken, Frankfurt a. M. 1978, pp. 66 ss. (tr. it. Infra, pp. 27 ss.).

[2] M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), Frankfurt a. M. 1989, pp. 404 ss. Su Nietzsche, oltre i due volumi su Nietzsche e Holzwege indicati da Heidegger, cfr. anche le lezioni di Heidegger, Nietzsche. Der europäische Nihilismus, Frankfurt a. M. 1986.

[3] M. Heidegger, Phänomenologie und Theologie, cit., p. 45.

[4] M. Heidegger, Beiträge, cit., pp. 407 ss. Cfr. anche M. Heidegger, Die Kehre, Pfüllingen 1962, riprodotto e tradotto da M. Ferraris, con un ampio saggio critico, “Cronistoria di una svolta” in M. Heidegger, La svolta, Genova 1990. Il problema della “svolta” della Seinsfrage, dopo Sein und Zeit, è già posto da Heidegger in Die Grundprobleme der Phänomenologie, Frankfurt a. M. 1975 (tr. it. I problemi fondamentali della fenomenologia, Genova 1988), su cui cfr.: F.-W. von Herrmann, Heideggers “Grundprobleme der Phänomenologie”. Zur “Zweiten Hälfte” von “Sein und Zeit”, Frankfurt a. M. 1991; la “Lettera” prefazione di Heidegger al volume di W. J. Richardson, Heidegger. Through Phenomenology to Thought, The Hague 1963 e, sul rapporto tra Kehre ed Eireignis, nella problematica di Zeit und Sein, cfr. M. Heidegger, Zur Sache des Denkens, Tübingen 1969 (tr. it. Tempo ed essere, con introduzione di E. Mazzarella, Napoli 1980), per cui rinvio al mio saggio “Marx, Heidegger e l’autonomia del negativo”, in Id., L’autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, Manduria 1991, pp. 345-364; per un’analisi generale del pensiero di Heidegger, oltre alle note opere di P. Chiodi e G. Vattimo, cfr. O. Pöggeler, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, Napoli 1991.

[5] H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, Milano 1990, pp. 59-60; un’ampia documentazione, a cui sempre corrisponde un’adeguata elaborazione teorica, della formazione cattolica e dello sviluppo del pensiero di Heidegger, si trova in V. Farias, Heidegger e il nazismo, Torino 1988, pp. 13-82.

[6] V. Farias, op. cit., pp. 29 ss. e 308 ss.

[7] Cit. in H. Ott, “Alle radici cattoliche del pensiero di Heidegger. Il filosofo teologico”, in F. Bianco (a cura di), Heidegger in discussone, Milano 1992, p. 328. I lavori citati di Ott contengono la più ricca documentazione sulla formazione cattolica e il dibattito religioso-filosofico sviluppatosi in modo particolare sul pensiero del giovane Heidegger.

[8] H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, cit., p. 77.

[9] Cit., ibidem.

[10] Cit, ivi, p. 80.

[11] Ivi, pp. 95, 104-108, 14-16.

[12] Cit. in H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, Genova 1987, p. 152.

[13] Ivi, pp. 157 e 25 ss.

[14] M. Heidegger, Unterwegs zur Sprach, Pfüllingen 1959, p. 96 (tr. it. In cammino verso il linguaggio, Milano 1990, p. 90).

[15] M. Heidegger, Ontologie (Hermeneutik der Faktizität), Frankfurt a. M. 1988, tr. it. Ontologia. Ermeneutica della effettività, Napoli 1988.

[16] Cfr. da un lato le opere già citate di Hugo Ott (sul piano storiografico) e di Hans Georg Gadamer (sul piano filosofico), del quale è importante, anche, “L’inizio del pensiero”, Aut-Aut, 248-249, 1993, pp. 187-205; dall’altro V. Farias, op. cit., che ha riproposto, negli ultimi anni, il problema delle implicazioni e dei legami del pensiero di Heidegger col nazismo, importante non tanto per la comprensione di Heidegger (abbastanza chiara almeno dalla pubblicazione di G. Schneeberger, Nachlese zu Heidegger. Dokumente zu seinem Leben und Denken, Bern 1962, di A. Schwan, Politische Philosophie im Denken Heideggers, Köln und Opladen 1965, ma anche degli scritti dei maggiori critici marxisti, G. Lukács, G. Mende, H. Heise, su cui cfr. “Analisi e critica dell’alienazione in Heidegger”, la nostra introduzione alla 1. ed. di M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, Firenze 1974, n. 15, pp. XI-XII), quanto per una verifica della posizione heideggeriana assunta da vasti settori della cultura contemporanea, particolarmente di sinistra. Comunque, nel dibattito sviluppatosi sulle tesi di Farias, ulteriore materiale di conoscenza e di riflessione è costituito dall’intervista televisiva di Heidegger a Der Spiegel del 1976 e da una serie di interventi nuovi di H. Ott, H. G. Gadamer, J. Derrida, E. Levinas, o vecchi, di K. Löwith, M. Müller, H. Jonas, K. Jaspers, K. Barth, H. Arendt e altri in G. Neske e E. Kettering (Hrsg.), Antwort. Martin Heidegger im Gespräch, Pfüllingen 1988 (tr. it. Risposta a colloquio con Martin Heiddeger, Napoli 1992). Sul rapporto tra filosofia e politica in Heidegger, tra gli interventi più significativi, su una posizione critica, è quello di J. Habermas, “Il filosofo e il nazista”, Micromega, 3, 1988, pp. 95-121; si vedano anche: P. Bourdieu, L’ontologie politique de Martin Heidegger, Paris 1988 (tr. it. col brutto titolo Fürher della filosofia?, Bologna 1989); l’appendice alla 3. ed. di O. Pöggeler, op. cit., pp. 403-498; i saggi di O. Pöggeler, Philosophie und Politik bei Heidegger, Mūnchen 1972 e quello compreso in A. Gethmann-Siefert e O.Pöggeler (Hrsg.), Heidegger und die praktische Philosophie, Frankfurt a. M. 1988, con saggi anche di H. Ott, A. Schwan e W. Franzen, pp. 17-110, generalmente critici rispetto al libro di Farias; cfr. anche i saggi di C. Luporini, O. Pöggeler, M. Riedel, G. Semerari, K. O. Apel, in F. Bianco (a cura di), op. cit., pp. 25.176.

[17] Cfr. la nostra “Analisi e critica dell’alienazione in Heidegger”, cit., pp. VIII ss.; P. Bourdieu, op. cit., pp. 17 ss. e il nostro Riformismo, razionalizzazione, autonomia operaia, Manduria 1991, capp. V e VIII, pp. 269-326, 447-498; L. Goldmann, Lukács e Hedegger, Verona 1976.

[18] Le prime notizie su questo corso inedito di Heidegger sono state date da O. Pöggeler in Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, cit., pp. 40-51; un’esposizione accurata del suo contenuto è stata fatta da T. Sheehan nel saggio “Heidegger’s Introduction to the Phenomenology of Religion 1920-1921”, The Personalist, LX, 3, 1979, pp. 312 ss. e da K. Lehmann in “Christliche Geschichterfahrung und ontologische Frage beim jungen Heidegger”, in O. Pöggeler (Hrsg.), Heidegger. Perspektiven zur Deutung seines Werks, Königstein/Ts. 1984, pp. 140-168.

[19] K. Lehmann, op. cit., pp. 142-143.

[20] Ivi, p. 143.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem. Sulla nozione di Faktizität, cfr. M. Heidegger, Ontologie (Hermeneutik der Faktizität), cit.

[23] K. Lehmann, op. cit., p. 144.

[24] Ivi, p. 155.

[25] Ivi, p. 156. Cfr. anche, sulla “formalizzazione” e “ontologizzazione esistenziale” dell’“esperienza cristiana originaria”, pp. 157 ss. Sul rapporto tra religione cristiana e ontologia esistenziale, A. Guzzoni ha sostenuto, in polemica con O. Pöggeler, l’indipendenza e autonomia della filosofia heideggeriana dalla teologia; O. Pöggeler, con H. G. Gadamer, H. Ott e altri, ha invece riaffermato la derivazione della filosofia dalla teologia cristiana del giovane Heidegger (O. Pöggeler, Il cammino del pensiero di Heidegger, cit., pp. 154-155). Questa tesi è diventata prevalente: cfr. H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., pp. 25-38, 150-176; H. G. Gadamer, “L’inizio del pensiero”, cit.: il vecchio scritto di K. Löwith, pur sempre valido, “Phänomenologische Ontologie und protenstantische Theologie”; W. Schulz, “Über den philosophiegeschichtlichen Ort Martin Heideggers”; H. Franz, “Das Denken Heideggers und die Theologie”, tutti ristampati in O. Pöggeler (Hrsg.), Heidegger. Perspektiven zur Deutung seines Werkes, cit., pp. 54-216; M. Mūller, Existenz-Philosophie im geistigen Leben der Gegenwar, Heidelberg 1964; V. Bernardi, “Lo Heidegger-Streit teologico degli anni Trenta”, in G. Semerari (a cura di), Confronti con Heidegger, Bari 1992, pp. 7-32, e F. De Natale, “Heidegger e Plotino: consonanze imperfette”, in G. Semerari (a cura di), op. cit., pp. 36-56.

[26] Il rapporto critico con Aristotele, mediato da Husserl e Dilthey, del giovane Heidegger, si trova nelle lezioni del 1920-1921, ora in Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einfūhring in die phänomenologische Forschung, Frankfurt a. M. 1985 (tr. it. Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricercar fenomenologica, con introduzione di E. Mazzarella, Napoli 1992).

[27] Cfr. M. Heidegger, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, Frankfurt a. M. 1979, pp. 3 ss. (tr. it. Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Genova 1991, pp. 8 ss.).

[28] Ivi, p. 6 (tr. it. cit., p. 11). Sui rapport di Heidegger con Bultmann, cfr. H. G. Gadamer, “La teologia di Marburgo”, in Id., I sentieri di Heidegger, cit., pp. 25-38; V. Bernardi, op. cit., e, rispetto alle diverse influenze di Heidegger sulla teologia protestante, cfr. i saggi già citati di K. Löwith, K. Lehmann, H. Franz e quello di H. Ott, “Die Bedeutung von Martin Heideggers Denken fūr die Methode der Theologie”, in AA. VV., Martin Heidegger Zum 80. Geburstag, Frankfurt a. M. 1970, pp. 27-38. Ricco di materiale di documentazione religiosa e teologica, particolarmente in relazione al pensiero di Tommaso d’Aquino, è il libro di G. Siewerth, Das Schiksal der Metaphysik von Thomas zu Heidegger, Einsiedeln 1959. Sulla teologia filosofica di Nietzsche e Heidegger, cfr. W. Weischedel, Il Dio dei filosofi. Fondamenti di una teologia filosofica nell’epoca del nichilismo, II, Genova 1991, pp. 271-350.

[29] J. Derrida, Dello spirito, Milano 1989, pp. 125 ss.

[30] M. Heidegger, Die Selbstbehauptung der deutschen Universität, Frankfurt a. M. 1983, pp. 9 ss. (tr. it. L’autoaffermazione dell’università tedesca, Genova 1988, pp. 17-18).

[31] Ivi, pp. 11 ss. (tr. it. p. 23).

[32] Cfr. F. Duque, “La contrada dello straniero”, Aut-Aut, 248-249, pp. 63 ss. Il numero monografico della rivista, a cura di V. Vitiello, è interamente dedicato a una discussione dei Beiträge e contiene interventi e saggi di J. Derrida, O. Pöggeler, R. Schūrmann, V. Vitiello, M. Ruggenini, M. Ferraris, R. Cristin, M. De Carolis, che ne sviluppano l’attualità e l’apertura rispetto al futuro della problematicità filosofica e della condizione umana. Un’originale interpretazione “buddista” dei Beiträge, basata sull’analogia tra Ereignis e Nirvana, viene condotta da D. Sinn in Ereignis und Nirwana, Bonn 1991, pp. 1-175.

[33] M. Heidegger, Beiträge, cit., pp. 403 ss.

[34] M. Heidegger, Hölderlin Hymnen “Germanien” und “Der Rhein”, Frankfurt a. M. 1980, pp. 176 ss.

[35] Ivi, p. 33.

[36] Ivi, p. 258. La “natura” e “Dio” sono i temi fondamentali del corso di Heidegger, Schellings Abhandlung ūber menschliche Freiheit (1809), Tūbingen 1971, su cui cfr. U. Thiele, Individualität und Zeitlichkeit, Kassel 1986, pp. 158 ss., che rivaluta il pensiero di Tommaso d’Aquino e la Scolastica. Questi argomenti sono ulteriormente sviluppati da Heidegger in Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, Frankfurt a. M. 1951 (tr. it. La poesia di Hölderlin, Milano 1988) e in Unterwegs zur Sprache, cit, con particolare riferimento all’interpretazione non cristiana della poesia di Trakl (pp. 37 ss., tr. it. cit., pp. 45 ss.). Su questo, cfr. J. Derrida, Dello spirito, cit., pp. 117 ss. e, sul carattere “teologico” della tarda filosofia di Heidegger, la “Conversazione con Jacques Derrida” e le valide argomentazioni critiche di V. Vitiello, M. Ruggenini, P. P. Gomez e M. Ferraris, in Aut-Aut, cit., pp. 3-16. Sul tema del linguaggio, sono stimolanti le pagine di H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., e, tra i numerosi scritti dedicati all’argomento, cfr. K. Löwith, Heidegger Denken in dūrftiger Zeit, Göttingen 1960 (tr. it. Saggi su Heidegger, Torino 1966); G. Vattimo, Essere, storia, linguaggio, Torino 1964; cfr. anche il libro di Beda Alemann, Hölderlin und Heidegger, Zūrich-Freiburg 1954, che sottolinea l’importanza del pensiero giovanile di Heidegger, in particolare di Sein und Zeit, per l’elaborazione della poesia come rivelazione dell’essere “temporalità in-finita del Dasein”, già presente nella favola della Sorge (pp. 88 ss.); cfr. anche il saggio di E. Scweppenhäuser, Studien ūber die heideggersche Sprachtheorie, Stuttgart 1957, che, criticando le tesi di Allemann, mosra come l’ontologia heideggeriana del linguaggio deriva da una sostanzializzazione della sua riflessione fenomenologica. Scweppenhäuser sviluppa la critica del presunto “assolutismo logico” del linguaggio presente nella fenomenologia husserliana (delle Ricerche logiche) e nell’ontologia heideggeriana, suo necessario e conseguente completamento, fatta da Th. W. Adorno in Per la metacritica della teoria della conoscenza, Milano 1969, e sviluppata nella Dialettica negativa, Torino 1966, pp. 53 ss.

[37] M. Heidegger, Beiträge, cit., p. 6. Sull’apertura all’“altro”, attraverso il sacrificio e l’esperienza del lutto (la morte), dopo Sein und Zeit, si sofferma M. Ferraris in Mimica. Lutto e autobiografia da Agostino a Heidegger, Milano 1992, pp. 5-24, 71-145. In rapporto al pensiero di E. Lévinas, cfr. J. Derrida, “Violenza e metafisica”, in Id., La scrittura e la differenza, Torino 1971, pp. 99-198; J. Reiter, “Il disinganno e la ragione: Heidegger e Lévinas”, in F. Bianco (a cura di), op. cit., pp. 351-366.

[38] M. Heidegger, Beiträge, cit., p. 4.

[39] Ivi, p. 3.

[40] Ivi, p. 4.

[41] Ivi, p. 25.

[42] Ivi, p. 54.

[43] Cfr. R. Schūrmann, “Que faire à la fin de la métaphysique?”, in AA. VV., Martin Heidegger, Paris 1983, pp. 449-477. Una discussione della tesi di Heidegger critico del potere, inrapporto al marxismo e all’ecologia, è avviata da Dominique Janicaud in “Face à la domination. Heidegger, le marxisme et l’écologie”, in AA. VV., Martin Heidegger, cit., pp. 477-494. La critica “anarchica” del potere, implicita nel superamento heideggeriano della metafisica, sostenuta da R. Schūrmann in Le principe d’anarchie. Heidegger et la question de l’agir, Paris 1982, apre possibilità di confronto anche con la Scuola di Francoforte (Marcuse, Adorno) e con la teoria del potere di M. Foucault, così come con il “pensiero debole”: cfr. G. Vattimo, Al di là del soggetto, Milano 1984; G. Vattimo, P. A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Milano 1983; in rapporto alla razionalizzazione, cfr. anche la diversa posizione, di integrazione del pensiero heideggeriano nella ristrutturazione capitalistica, in M. Cacciari, Krisis, Milano 1976. La trattazione heideggeriana di questi problemi si trova in Vorträge und Aufsätze, 3 voll., Pfūllingen 1934 (tr. it. Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano 1976); Grundbegriffe, Frankfurt a. M. 1981 (tr. it. Concetti fondamentali, Genova 189); Vier Seminare, Frankfurt a. M. 1977 (tr. it. Seminari, a cura di F. Volpi, Milano 1992).

[44] M. Heidegger, Beiträge, cit., pp. 416-417.

[45] Ivi, p. 416.

[46] Ivi, p. 411.

[47] Ivi, p. 423.

[48] Ivi, p. 414.

[49] Ivi, pp. 408-409.

[50] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze 1970, II, pp. 400-405. La risposta alla domanda richiede una riproblematizzazione del rapporto di Heidegger con Marx e Nietzsche che vada al di là della prospettiva riduttiva in cui Heidegger pensa Marx come metafisico della tecnica e Nietzsche come metafisico della volontà di potenza; per la sua trattazione introduttiva rinvio al mio saggio “Sovversione e liberazione”, in L’autonomia del negativo, cit., pp. 233-364.