Malattia e memoria in Nietzsche

Nicola Massimo de Feo, 30/10/2020

Materiale datato: 01/01/1973

In Malattia e memoria in Nietzsche del 1973 De Feo si scontra con la cecità che caratterizza il pensiero di Nietzsche, incapace di cogliere l’oggettività della prassi storica e sociale. Egli ravvisa nella pretesa nietzschiana di una "desoggettivazione" del pensiero, che dà corpo alla dimensione prospettico-dialettica della storia della materia, una inevitabile ricaduta in una più raffinata forma di soggettivismo, che si re‑instaura a fondamento delle interpretazioni della realtà. A partire dalla malattia e dalla morte del padre, incarnazione della "ragione" e della "legge" della vita sociale borghese nel suo carattere più nichilistico, il filosofo tedesco sancisce il rifiuto dell’uomo e di Dio, dei valori preesistenti, della filosofia metafisica e con essa della religione e della scienza, a favore di un bisogno di oggettività che si traduce nella teorizzazione di una filosofia storica, in cui la materia è processo senza soggetto, pensiero senza io. Tuttavia tale decostruzione critica – ed è questo il tema centrale dell’analisi di De Feo – non è e non può essere separata da un inevitabile ripiegamento sul troppo umano, da una deriva "psicoanalitica". Il troppo umano non viene mai dimenticato, bensì recuperato in una sintesi di tipo hegeliano che impedisce una conoscenza oggettiva del reale, il quale non appare se non come una possibilità secondo la disponibilità di senso del soggetto. Così si constata l’impossibilità di rimuovere il feticcio della memoria.

Illustrazione chirurgica, XIX secolo
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N. M. de Feo, Malattia e memoria in Nietzsche, Annali dell'Università di Lecce – Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. V, 1973, pp. 287-321.

«Il primo evento che colpì la mia coscienza in crescita fu la malattia di mio padre»[1], annota Nietzsche nel breve schizzo autobiografico La mia vita (Mein Leben), del 18 settembre 1863. Il lun­go decorso della malattia del padre, la sua cecità ed infine la morte generano la prima forma elementare di coscienza critica, tutta presente nella domanda, che è un atto di rivolta, con cui termina lo scritto di Nietzsche: «È questo il mondo? È questo Dio?»[2].

L’esperienza della malattia non è per Nietzsche solo un fatto biografico, ma anche, e fondamentalmente, una forma specifica di coscienza, che riflette la realtà naturale e storica in modo speci­ficamente antagonistico, da un lato mostrandone la disumanità profonda, dall’altro coprendo le radici oggettive, storico‑sociali, delle contraddizioni soggettive, attraverso la forma interiore del conflitto[3]. La malattia paterna apre a Nietzsche la comprensione, che fu anche di Freud, di Kafka e di Sartre, del carattere nichi­listico della vita sociale borghese, perché il «padre», come forma eterna della «ragione» e della «legge», è «istinto di morte», «malattia», «repressione»[4]. Nella malattia «lunga e dolorosa» di suo padre, pastore protestante, nel ricordo della sua «cecità» e della sua morte, Nietzsche trova le categorie principali della sua critica della civiltà: la connessione tra nichilismo e cristianesimo, etica borghese ed umanismo dionisiaco. Il peso dell’eredità pa­terna - in cui è tutta la tradizione dell’Occidente - si identifica alla fine con la malattia stessa di Nietzsche, che è l’appropriazio­ne di quella tradizione, il suo rovesciamento interiore, schiacciato dalla sua stessa disumanità. Il «mondo» e «dio», la scienza della natura, la storia e la teologia sono le forme in cui Nietzsche coglie, nell’adolescenza traumatizzata dalla disumanizzazione cri­stiana, l’«oggettività». La rivolta contro queste forme diventa rifiuto dell’oggettività, disgusto idealistico del reale, progressivo ripiegamento psicoanalitico.

«È presa infine la decisione di scrivere un taccuino, nel quale si consegna alla memoria tutto ciò che tristemente o anche lieta­mente muove il cuore, al fine di ricordare se stessi negli anni della vita e dell’attività di questa epoca e in particolare di quella mia»[5], aveva scritto Nietzsche nella sua prima nota autobiogra­fica, composta a Naumburg il 12 dicembre 1856. La riflessione qui nasce come «ricordo di sé stesso», memoria, che è il risultato di una risoluzione interiore (Entschluss), che è una lotta contro la dimenticanza e che si pone come tradizione del passato. Questo pensiero, che decide di consegnare alla memoria la storia passata, «in particolare quella mia», mentre da un lato realizza sul piano della riflessione soggettiva quel «senso d’essere» proprio della metafisica occidentale che è il «pensiero‑memoria», nell’accezione hegeliano‑heideggeriana[6], dall’altro ne esplicita il fondamento «troppo umano», che è la malattia del borghese. Quando Nietzsche «decide» di «consegnare alla memoria» la propria storia, il pen­siero gli appare già come un prodotto, cristallizzazione di un processo che avviene al di qua della consapevolezza e della razionalità. Nel primo scritto propriamente teorico di Nietzsche, Libertà del volere e Fatum (Willensfreiheit und Fatum), il rapporto dialettico tra «conscio» ed «inconscio» traduce il contrasto, tradizionale nell’etica teologica, tra «libertà del volere» e «fato», che l’idealismo classico ha riproposto come rapporto tra «infinito» e «finito». Se da un lato Nietzsche comprende ancora l’«individuo» attraverso la nozione di «Fatum», che è la necessità irrazionale del «finito» (Schopenhauer), dall’altro egli vede nell’«individuo», cioè nel «finito», il prodotto di forze materiali, «lo specchio nel quale si riflette la limitazione della propria personalità», per cui esso non è un atomo originario ma un elemento della «totalità», in cui «libertà» e «necessità» sono reciprocamente legati in un «contro‑movimento libero e forzato»[7]. L’individuo è il risultato della lotta tra una forza «inconscia» ed unificante (Fatum) ed una «conscia» e disgregatrice, l’impulso alla separazione (Lostrennung) che trascina l’uomo al di fuori di sé stesso e della totalità, l’impulso verso l’infinito, la «libertà del volere»: anticipazione delle categorie dell’«apollineo» e del «dionisiaco» della Nascita della tragedia. Senza la lotta di queste due forze contraddittorie, la «libertà del volere» avrebbe fatto «dell’uomo un dio» e «il prin­cipio fatalistico» lo avrebbe trasformato in «automa»[8], per cui «se noi consideriamo il concetto di azione inconscia non come un mero farsi‑trascinare da impressioni precedenti, allora viene me­no per noi la distinzione rigorosa tra fatum e libero volere e en­trambi i concetti si confondono nell’idea di individualità»[9].

L’autoanalisi del pensiero‑memoria, che si costituisce nella rivolta contro il «mondo» e «dio», che ripensa il rapporto del­l’uomo con la totalità in termini etici di valore, neutralizza la pro­pria dimensione valutativa, nella misura in cui dirige l’analisi al di fuori della soggettività. «Fato» e «libertà del volere» non sono più allora categorie etiche, ma «forze naturali», «impulsi» legati dal movimento dell’«azione reciproca» della «totalità materiale» che è «natura» e «storia», di cui l’individuo è un elemento neces­sario e «bene» e «male», così come «piacere» e «dolore» sono «elementi» o «momenti». La rivolta idealistica contro la realtà perviene a questa comprensione dell’oggettività data, nella quale la «storia del mondo è quindi storia della materia» - in cui sembra che il pensiero nietzschiano si sia liberato dalla prigione della coscienza malata. In realtà, questa conoscenza non modifica il rapporto della coscienza con l’oggettività, ma produce un «di­sincantamento», per usare un termine di Max Weber, che genera una inutile liberazione intellettuale che accomuna il Freigeist di Nietzsche all’intellettuale weberiano[10], inesorabilmente schiacciati dalla propria impotenza contemplativa. «Felice, se egli non pe­netra la sua condizione, se trasale convulsamente nei legami che lo avvincono, se aspira con il suo folle piacere a confondere il mondo e il suo meccanismo!»[11].

La comprensione dell’oggettività è ancora troppo pregna di disgusto idealistico, e la sua rivolta, pur diretta a superare la prigione della soggettività, è condannata a ricadere nella gabbia del «troppo umano». Il pensiero, tuttavia, tenta di spezzare questa gabbia: in Fato e storia (Fatum und Geschichte), la «totalità», di cui l’uomo è elemento necessario, è la «storia», l’«uma­nità», il «popolo», il «mondo», la cui «giustificazione» (Berechtigung) si trova, tuttavia, nell’uomo (Fatum), per il quale «Gli eventi sono ciò che gli eventi determinano»[12]. Se questo è il principio che regola la realtà, allora «l’uomo è una palla da gioco che una forza oscura produce, libero da distinzioni morali, anello necessario di una catena»; «Forse così come lo spirito è solo la più piccola sostanza infinita, il bene può essere la più sottile manifestazione dello sviluppo del male, non come il libero volere la più alta potenza del fato. Storia del mondo è quindi storia della materia, se si prende il significato di questa parola nella sua portata infinita. Devono esserci allora principi più alti, grazie ai quali ogni distinzione si invera in una grande unifica­zione, per cui ogni sviluppo è un gradino successivo, tutto con­fluisce in un enorme oceano, dove si ritrova ogni leva dello svi­luppo del mondo, e confluisce, fuso, ogni essere»[13]. Teso tra idealismo e materialismo, anticipando la visione cosmica dell’«eterno ritorno dell’eguale», Nietzsche sente la dolorosità del salto teorico che consentirebbe al suo pensiero di liberarsi delle categorie morali, per accedere ad una comprensione oggettiva del­la «storia della materia» che spieghi la relazione, che per la ri­flessione soggettiva resta un mistero, che lega l’«individuo» alla «totalità», l’«uomo» al «mondo». Se non è ancora chiara la natura di quei «più alti principi», per i quali è possibile descri­vere la storia del mondo «come storia della materia», in cui la molteplicità infinita delle differenze e distinzioni viene compresa in un processo di «unificazione» progressiva, se questa esigenza di oggettività è ancora sempre riportata ad una fondamentale di­sposizione teologico‑romantica, che è la categoria dell’infinito, è indubbio, tuttavia, che in questi primi anni la riflessione di Nietzsche è tutta dominata da un bisogno di oggettività che la tra­dizione cristiana e la cultura borghese non possono soddisfare. Ma se la ricerca di una nuova conoscenza rende necessaria la liberazione del pensiero dalle categorie morali del bene e del male, essa è inse­parabile dalla realizzazione di un senso nuovo dell’umano, che pro­prio la critica del cristianesimo rende possibile. Anticipando di molti anni le tesi fondamentali dell’Anticristo, in un altro frammento del 1862, Sul cristianesimo (Über das Christentum), Nietzsche presenta il cristianesimo come «cosa del cuore»: «Che Dio sia diventato uomo, vuol dire che l’uomo non deve cercare la sua felicità nell’infinito, ma sulla terra deve fondare il suo cielo; l’illu­sione di un mondo sovrannaturale aveva portato l’uomo spirituale in una posizione falsa rispetto al mondo naturale»[14]; «Tra ardui dubbi e lotte l’umanità diventa umana: essa riconosce in sé il principio, il mezzo, lo scopo della religione»[15].

L’ateismo liberatore, l’umanizzazione dell’umanità naturale, la fine dell’illusione sovrannaturale, il recupero dell’essenziale uma­nità che sta al fondo dell’alienazione religiosa, di cui l’uomo è «principio, mezzo e scopo», sono l’ideologia del progetto nietzschia­no della nuova conoscenza, la «terrena felicità» che è la riconciliazione «fatale» dell’uomo nell’«enorme oceano di ogni essere».

In questa comprensione, Nietzsche è più vicino a Kierkegaard, ad Heidegger e a Sartre, che a Feuerbach e a Marx[16]. Il «Cristo», che rappresenta una dimensione fondamentale della soggettività cri­stiano‑borghese, permane come residuo esistenziale della negazione atea, da un lato come ideale dell’umanità disalienata (Anticristo), dall’altro come «eterno ritorno» della dissoluzione teologica, nel dramma dell’«uomo più brutto del mondo» e nel peccato della «compassione» (Così parlò Zaratustra)[17].

Pur compreso come un «nello necessario della catena» della storia, l’uomo resta per Nietzsche fatum,il prodotto di forze pe­rennemente antagonistiche, «metà Cristo e metà Cesare», riflesso della millenaria storia occidentale e della metafisica nichilista. Nella malattia paterna, «consegnata alla memoria» e fusa con la pro­pria malattia, Nietzsche si trascina l’eredità sociale dell’«aristocra­zia del vetum»[18], la nobiltà prussiano‑polacca dello Junkertum e l’ascesi luterana. Il «padre», in tutte le sue forme ideologiche e culturali, è per Nietzsche, come per Kafka, «istinto di morte», la «spina nella carne» di Kierkegaard, la forza distruttiva sublimata nella religione, nella filosofia, nell’arte e nella scienza moderne.

Dettaglio di E. Munch, La fanciulla malata (1885-1886)

Mentre ricerca l’oggettività, il pensiero di Nietzsche è ricacciato nella memoria. Perché la liberazione e riumanizzazione dell’uomo non sono possibili se non ripetendo la storia della sua prigionia e disumanizzazione, che è il ricordo della malattia. La nuova storia della materia come storia del mondo è possibile solo come storia della coscienza malata, che è la psicoanalisi dell’esistenza interiore della civiltà occidentale, la desublimazione dei suoi valori. Nella tensione tra analisi e memoria si costituisce il pensiero come «arte di rovesciare le prospettive» (Ecce Homo). Il suo movimento, che è progressivo e regressivo, da un lato dissacra i valori «attuali», dall’altro, fissandoli nel ricordo, li conserva nella propria «umanità». La tensione riflessiva diventa allora rivolta e conservazione, critica e tradizione. Questo duplice movimento, che nella Nascita della tragedia è compreso nella reciprocità dialettica dell’apollineo e del dionisiaco, quale si configura nella forma classica della tragedia greca e che il pensiero cristiano e moderno ha dissolto, trova la sua espressione più matura nella formula posteriore dell’«amor fati» e dell’«eterno ritorno dell’eguale» e si realizza nel carattere antinomico della riflessione prospettica. L’«arte di rovesciare le prospettive» è il procedimento antinomico di una riflessione che conosce attraverso negazioni e antitesi, e che, pertanto, ha il suo modello logico nella antinomicità del pensiero borghese, da Hegel a Heidegger. La confluenza antinomica della libertà del «liberum vetum» del «feudalesimo polacco» con il «fato» della tragedia greca rischiara la reale contraddittorietà di cui vive il pensiero borghese, costretto tra libertà e necessità, infinito e finito, idealismo e materialismo.

L’acquisizione da parte del pensiero nietzschiano di questa dimensione «prospettivistica», anticipata dalle intuizioni ed elabora­zioni fondamentali dei suoi scritti giovanili[19], si definisce già a partire dalla sua critica della scienza moderna, che è lo sbocco teo­rico della critica nietzschiana della religione, della filosofia e dell’arte (Schopenhauer e Wagner). «Ciò che allora mi venne di af­ferrare - scrive Nietzsche nella prefazione alla Nascita della tragedia del 1886 -, qualcosa di formidabile e di pericoloso, era un problema cornuto, non di necessità addirittura un toro, ma sempre, a ogni modo, un problema n u o v o; e oggi sto per dire che era per l’appunto il p r o b l e m a d e l l a s c i e n z a: della scienza intesa per la prima volta come un fatto problematico, un fatto di­scutibile»[20]. Apparso negli anni di più intensa razionalizzazione scientifica ed economica del capitalismo europeo, avviato decisa­mente alla sua organizzazione monopolistica grazie al generale trionfo del pensiero positivo, la Nascita della tragedia doveva es­sere un «libro i m p o s s i b i l e» perché metteva in discussione il valore più alto del pensiero moderno, la scienza, auspicando la «rinascita della tragedia» attraverso la «musica». Facendo della scienza un problema, il problema stesso del senso dell’esistenza, Nietzsche non rifiuta la scienza, così come egli dimostra in Umano, troppo umano, la sua prima opera decisamente antiromantica, ma non positivista[21]. È proprio la scienza, anzi, che fonda la validità dei valori, una scienza, tuttavia, che sia stata liberata dalla «mo­rale» e che abbia il suo valore non in «principi» assoluti, ma nell’«uomo stesso». Non dunque l’ideale umanistico dell’«umano‑generale» (Allgemeine Menschliche) ma la concretezza, empiricamen­te determinabile attraverso l’analisi scientifica, psicologica, sociale, antropologica, dell’esistenza, diventa il senso o valore della nuova conoscenza, che, come dice nella prefazione del 1886 a Umano, trop­po umano, è un «implicito incitamento a sovvertire gli apprezza­menti consueti e le apprezzate consuetudini»[22]. «Come, tutto sa­rebbe soltanto umano, troppo umano? Con questo sospiro si usci­rebbe dai miei scritti, non senza riportarne una specie di ripugnanza e di diffidenza verso la morale stessa, anzi, discretamente tentati e incoraggiati a fare per una volta gli intercessori delle cose peg­giori, come quelle che sono soltanto le meglio calunniate» (loc. cit.). Se attraverso il «sospetto» e il «disprezzo» verso i «più alti prin­cipi» della scienza e della morale, Nietzsche libera il fondamento «umano» dei «valori», la nuova conoscenza (la «gaia scienza») realizza la progettata «storia del mondo» in quanto «storia della materia». Ma questa scienza «nuova» ha bisogno di una «diver­sità di sguardo», che è «tradimento», «sospetto» e «disprezzo» verso i «valori eterni». Questa critica teorica non porta solo al disincantamento dei valori esistenti, o alla loro desublimazione, ma si pone, anche, come rifondazione regressiva di ogni valore in generale nella ripetizione del «troppo umano». La nuova conoscen­za appare allora come una mèta troppo lontana. L’analisi ricade nella memoria, e si fa ripetizione, il «rovesciamento di tutti i valori» diventa esercizio teorico, «arte» che modifica la posizione, o «prospettiva», dei «valori», senza poterli distruggere. «I pro­blemi filosofici - così incomincia Umano, troppo umano - ripren­dono oggi in tutto e per tutto quasi la stessa forma interrogativa di duemila anni fa: come può qualcosa nascere dal suo opposto, per esempio il razionale dall’irrazionale, ciò che sente da ciò che è morto, la logica dall’illogicità, il contemplare disinteressato dal bramoso volere, il vivere per gli altri dall’egoismo, la verità dagli errori? La filosofia metafisica ha potuto finora superare questa diffi­coltà negando che l’una cosa nasce dall’altra e ammettendo per le cose stimate superiori un’origine miracolosa, che scaturirebbe immediatamente dal nocciolo e dall’essenza della ‘Cosa in sé’. Invece la filosofia storica, che non è più affatto pensabile separata dalle scienze naturali, ed è il più recente di tutti i metodi filosofici, ha accertato in singoli casi (e questo sarà presumibilmente il suo ri­sultato in tutti i casi), che quelle cose non sono opposte, tranne che nella consueta esagerazione della concezione popolare o meta­fisica, e che alla base di tale contrapposizione sta un errore di ra­gionamento: secondo la sua spiegazione, non esiste, a rigor di ter­mini, né un agire altruistico né un contemplare pienamente disin­teressato, entrambe le cose sono soltanto sublimazioni, in cui l’ele­mento base appare quasi volatilizzato e solo alla più sottile osser­vazione si rivela ancora esistente. Tutto ciò di cui abbiamo biso­gno e che allo stato presente delle singole scienze può esserci vera­mente dato, è una chimica delle idee e dei sentimenti morali, reli­giosi ed estetici, come pure di tutte quelle emozioni che sperimen­tiamo in noi stessi nel grande e piccolo commercio della cultura e della società, e persino nella solitudine: ma che avverrebbe, se que­sta chimica concludesse col risultato che anche in questo campo i colori più magnifici si ottengono da materiali bassi e persino spregiati? Avranno voglia, molti, di seguire tali indagini? L’umanità ama scacciare dalla mente i dubbi sull’origine e i principi: non si deve forse essere quasi disumanizzati per sentire in sé l’inclinazione opposta?»[23]. La «filosofia storica» comprende, attraverso il «nuovo metodo filosofico» della «chimica delle idee e dei sentimenti», che la contraddizione è la struttura e la legge oggettiva della realtà; che le antinomie, di cui essa consiste, non sono vera­mente tali se non all’osservazione immediata o all’astrazione meta­fisica; che da «duemila anni» la «filosofia» è ancora impotente a rispondere alla domanda, perché il razionale nasce dall’irrazio­nale, la verità dall’errore, ecc. Contrapponendo la «filosofia metafi­sica» alla «filosofia storica», Nietzsche distingue due metodi di conoscenza, che, con Engels, chiamiamo «metafisico» e «dialettico»[24]. È possibile, però, che la conoscenza dialettica, cioè la «filosofia storica», possa spiegare «come qualcosa può nascere dal suo opposto», se essa, nonostante l’ausilio delle «scienze naturali», si riduce ad una «chimica delle idee e dei sentimenti»? In quanto «chimica», la «filosofia storica» è una dialettica analitica, che scinde la realtà nei suoi elementi, riducendosi ad una genealogia, che riduce i «principi più alti», «tutti i valori sinora esistiti», a «materiali bassi e persino spregiati». Posto in questi termini, il «metodo dialettico» (la «filosofia storica») sembra ridursi ad una variante empiristica ed analitica del «metodo metafisico» (la «filosofia metafisica»).

La ricerca della genesi antropologica dei valori, in particolare della «verità», che è il «più alto» dei valori, è il compito della nuova «filosofia storica» in quanto metodo scientifico della «storia della materia». Il «sospetto», che fa della scienza un problema, mette in discussione anche il principio metafisico, che è il prin­cipio della «filosofia metafisica», della «volontà di verità». «La volontà di verità che ci sedurrà ancora a molti rischi, quel famoso spirito di verità di cui tutti i filosofi fino ad oggi parlano con venerazione: questa volontà di verità, quali mai domande ci ha già proposto! Quali malvagie, bizzarre, problematiche domande! È già una lunga storia - eppure non si direbbe, forse, che essa sia appena ora cominciata? Quale meraviglia se una buona volta, finalmente, diventiamo diffidenti, perdiamo la pazienza, e con im­pazienza ci rivoltiamo? Che si debba anche da parte nostra impa­rare da questa sfinge a interrogare. Chi è propriamente che ora ci pone domanda? Che cosa in noi tende propriamente alla ‘verità’? - In realtà, abbiamo sostato a lungo dinanzi al problema della causa di questo volere - finché abbiamo finito per arrestarci completamente dinanzi a un problema ancor più profondo. Ci siamo posti la questione del valore di questa volontà. Posto pure che noi vogliamo la verità: perché non piuttosto, la non verità? E l’incertezza? E perfino l’ignoranza? - Il problema del valore della verità ci si è fatto innanzi - oppure siamo stati noi a farci innanzi a questo problema? Chi di noi è in questo caso Edipo? Chi la Sfinge? Pare che si siano dati convegno interroga­zioni e punti interrogativi. E si potrebbe mai credere all’impres­sione, nata, in definitiva, in noi, che il problema non sia stato finora mai posto - che siamo stati noi per primo ad averlo in­travisto, preso di mira, osato? Giacché esso comporta un rischio e forse non esiste rischio più grande»[25]. L’impossibilità di spiegare «come qualcosa nasce dal suo opposto», mette in crisi il «principio» della «filosofia metafisica», quella «volontà di verità» contro cui «con impazienza ci rivoltiamo», rigettandone la prete­sa validità incondizionata, ricercando per la prima volta «chi» e «che cosa» si trova alle sue spalle. Ma il valore della verità è anche il valore dei valori, la cui ricerca è il compito dell’analisi genealogica, o «filosofia storica», su cui Nietzsche progetta la sua «storia del mondo» come «storia della materia»: «Enuncia­mola questa nuova esigenza: abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di cominciare a porre una buona volta in questione il valore stesso di questi valori - e a tale scopo è necessaria una conoscenza delle condizioni e delle circostanze in cui sono attec­chiti, poste le quali si sono andati sviluppando e modificando (morale come conseguenza, come sintomo, come maschera, come tartuferia, come malattia, come fraintendimento; ma anche mora­le come causa, come terapia, come stimulans,come inibizione, come veleno), non essendo esistita fino a oggi una tale conoscenza e non essendo neppure soltanto desiderata. Si è preso il valore di questi ‘valori’ come dato, come risultante di fatto, come trascendente ogni messa in questione; fino a oggi non si è nep­pure avuto il minimo dubbio o la minima esitazione nello stabi­lire ‘il buono’ come superiore, in valore, al ‘malvagio’, superiore in valore nel senso di un avanzamento, di una utilità, di una prosperità in rapporto all’uomo in generale (compreso l’avvenire dell’uomo). Come? e se la verità fosse il contrario? Come? e se nel bene fosse insito anche un sintomo di regresso, come pure un pericolo, una seduzione, un veleno, un narcoticum, attraverso il quale a un certo punto il presente vivesse a spese dell’avvenire?... Così che proprio la morale sarebbe il pericolo dei pericoli?…»[26]. Anche in questo brano della prefazione alla Genealogia della mo­rale, la critica della morale, come critica della validità dei valori, appare come progetto di riumanizzazione dei valori, che vuol dire la riassunzione dell’«uomo in generale (compreso l’avvenire dell’uomo)» a fondamento cioè principio, mezzo e scopo dei valori. La ricerca di «chi» e di «che cosa», del soggetto e del­l’oggetto della valutazione, è il compito fondamentale di questa «critica» della morale, che coglie dalle «scienze naturali» (la «fisiologia», la «medicina», la «linguistica»), la direzione di senso, lo «scopo», di ogni valutazione: «La questione: che va­lidità ha questa o quella tavola di valore, questa o quella ‘morale’? deve essere posta sotto le più svariate prospettive; specialmente la questione ‘valida a che scopo?’ non sarà mai sviscerata abbastanza sottilmente… Tutte le scienze devono ormai elaborare in via preparatoria il compito futuro dei filosofi: inten­dendo questo compito nel senso che il filosofo deve risolvere il problema del valore, deve determinare la gerarchia dei valori»[27].

Se da un lato «tutte» le scienze sono chiamate al compito di riumanizzare i valori, determinando le condizioni reali di validità delle categorie morali, estetiche, religiose, dall’altro la stessa scienza, in quanto valore, è diventata «problema» e richiede di essere riumanizzata. Il circolo chiuso in cui si avvolge la medita­zione nietzschiana sulla scienza e i valori, emerge più chiaramente nell’indeterminazione in cui essa lascia il fondamento umano, il «chi» e il «che cosa», che è principio e scopo della valutazione, l’«umano in generale», in cui, egli dice, «va compreso l’avvenire dell’uomo». Ma questa indeterminazione non è casuale.

Rigettando la teoria positivista della scienza, che Nietzsche vede come residuo della «filosofia metafisica», egli riafferma il ca­rattere umanistico, pratico‑esistenziale, di ogni conoscenza. L’affermazione antipositivista, che non vuol essere antimaterialista, «no, non ci sono propriamente fatti, ma solo interpretazioni», tende a riformulare, nell’ambito della logica della scienza, una arti­colazione logico‑linguistica della riumanizzazione delle scienze, che, al pari delle successive «filosofie del linguaggio», non può sot­trarsi al bisogno di chiarire il fondamento oggettivo delle proprie determinazioni semantiche, il che rimanda necessariamente, al di là delle più evidenti deformazioni irrazionalistiche delle teorizzazioni «ermeneutiche» dell’«interpretazione», alla categoria nietzschiana del «troppo umano»[28].

Karl Schlechta ha parlato di una «desolata monotonia» che penetra la meditazione nietzschiana sulla scienza, riassumibile in tre motivi fondamentali: «1) Il mondo - compreso l’uomo - com’è veramente; 2) Il mondo - compreso l’uomo - come l’uomo lo ha inteso sin’ora e - Nietzsche aggiunge - lo comprende ancora sempre; 3) Come dobbiamo comprendere noi stessi e il mondo, se si sa come il mondo - compreso l’uomo, è ‘veramente’»[29]. Se la scienza è legata alla ripetizione indefinita del rapporto uomo‑mondo, è la natura di questo rapporto, non solo conoscitiva, ma anche ontologica, che determina il senso della scienza. Se 1’uomo è «compreso» nel mondo, se il «mondo» è la «materia», nel suo significato più ampio, e se scopo della riflessione «storica» di Nietzsche è di costruire una «storia del mondo» come «storia della materia», l’affermazione di Nietzsche, «no, non ci sono propriamente fatti, ma solo interpretazioni» acquista un significato non solo logico‑metodologico, ma anche ontologico, in quanto interessa la natura del rapporto uomo‑mondo e, in particolare, la specificità dell’«umano in generale». Se la scienza è costruzione di significati, questo non implica che la «materia» non esiste; in questo senso, osserva Nietzsche in Al di là del bene e del male, «comincia forse oggi ad albeggiare il pensiero che anche la fisica sia soltanto una interpretazione del mondo e un ordine imposto ad esso (secondo il nostro modo di vedere! - con licenza parlando) e non già una spiegazione del mondo: ma in quanto la fisica si fonda sulla fede nei sensi, essa vale come qualcosa di più e a lungo andare deve acquistare ancora maggior valore, cioè deve valere come spiegazione»[30]. Ma come la «materia» non è «fatto», e il «mondo» non è la «fisica», nello stesso modo l’«uomo» non è «soggetto»: «Il ‘soggetto’ non è un dato, ma qualcosa d’inventato, di presupposto (dahintergesetzt). Infine, è necessario porre ancora l’interprete dietro l’interpretazione? Già questo è invenzione (Dichtung), ipotesi»[31]. Se da un lato il «troppo umano» è «compreso» nel «mondo», e rientra nell’oggettività, dall’altro esso non si identifica né con il «soggetto» né con l’«io». «Per quanto riguarda la superstizione dei logici, non mi stancherò mai di tornare sempre a sottolineare un piccolo, esiguo dato di fatto, che malvolentieri questi superstiziosi sono disposti ad ammettere - vale a dire, che un pensiero viene quando è ‘lui’ a volerlo, e non quando ‘io’ lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto ‘io’ è la condizione del predicato ‘penso’. Esso pensa: ma che questo ‘esso’ sia proprio quel famoso vecchio ‘io’ è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una supposizione, un’affermazione, soprattutto non è affatto una ‘certezza immediata’. E infine, già con questo ‘esso pensa’ si è fatto anche troppo: già questo ‘esso’ contiene un’interpretazione del processo e non rientra nel processo stesso. Si conclude a questo punto, secondo la consuetudine grammaticale: ‘Pensare è una attività, a ogni attività compete qualcuno che sia attivo, di conse­guenza...’. Pressappoco secondo uno schema analogo il più antico atomismo cercava, oltre alla ‘forza’ che agisce, anche quel pic­colo conglomerato di materia in cui essa risiede, da cui promana la sua azione l’atomo; cervelli più rigorosi impararono infine a trarsi d’impaccio senza questo ‘residuo terrestre’ e forse un bel giorno ci si abituerà ancora, anche da parte dei logici, a cavarsela senza quel piccolo ‘esso’ (nel quale si è volatilizzato l’onesto, vecchio io)»[32]. È questo, indubbiamente, il passo più significativo compiuto da Nietzsche verso la fondazione di un «nuovo materialismo», che si pone come «storia del mondo» in quanto «storia della materia» nel senso più ampio di questo termine: la materia è processo senza soggetto,interpretazione senza interprete, pensiero senza io. La critica della morale, applicata alla teoria della conoscenza, porta alla desoggettivazione della scienza, che significa la scoperta di una nuova dimensione della materia, quella processuale, o dialettica, che identifica prospettivismo e multilateralità dell’oggetto come processo. La natura processuale della materia è l’oggetto specifico della nuova «filosofia storica», la quale soltanto può spiegare come «qualcosa nasce dal suo opposto», proprio perché ha dissolto il mito «metafisico», che è anche religioso ed estetico, del «soggetto» dell’«io» e dell’«oggetto», o «fatto». Ma il pensiero della materia come «continuum», che pur è il risultato dell’autoliberazione della riflessione dalla gabbia della soggettività, ricade nella rete del «troppo uma­no», al cui livello recupera un significato nuovo, più critico di soggettività, che riconduce il prospettivismo ad una più raffinata e critica forma di soggettivismo che Nietzsche chiama «finzionalismo». Se è possibile scindere l’«interpretazione» dall’«inter­prete», il predicato «penso» dal soggetto «io», se i significati non sono necessariamente creazioni, allora vuol dire che le pro­spettive posseggono un’oggettività specifica, o materialità, che fonda, cioè rende possibile, la loro stessa articolazione analitica. In realtà, la critica nietzschiana della «filosofia metafisica» non va al di là di una rifondazione di senso, o riumanizzazione, della teoria della conoscenza predialettica; la teoria della «finzione», a cui conduce la critica del soggettivismo e dell’oggettivismo, dell’idealismo e del positivismo, appare come recupero del «troppo umano» che è il fondamento di ogni astrazione e concettualizzazione. Pur estendendo la sua sfera al di là dei limiti naturalistici della psicologia tradizionale, il «troppo umano», la dimensione «sotterranea» del «materiale basso e spregevole», diventa la di­mensione fondamentale che costituisce il senso delle interpretazio­ni e dei significati, delle astrazioni e delle concettualizzazioni delle scienze, una psicologia nuova, che si pone come «analitica esistenziale», «fenomenologia trascendentale», «psicologia compren­dente», «psicoanalisi esistenziale»[33], ecc., avente a suo oggetto e campo di ricerca la «volontà di potenza». «Tutta quanta la psicologia è rimasta sino ad oggi sospesa a pregiudizi e apprensioni morali: essa non ha osato scendere nel profondo. Concepirla come morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza, come io la concepisco: - questo non è stato da nessuno neppure sfio­rato col pensiero: stando al fatto, cioè, che ci è consentito di rico­noscere, in quel che finora è stato scritto, un indizio di quel che finora è stato taciuto ... Mai sino ad oggi un più profondo mondo della conoscenza si era dischiuso a navigatori e avventurieri te­merari, e lo psicologo che in tal modo ‘compie il sacrificio’ - non il sacrificio dell’intelletto, al contrario! - potrà per lo meno pretendere che la psicologia sia nuovamente riconosciuta signora delle scienze, al servizio e alla preparazione della quale è desti­nata l’esistenza delle altre scienze. La psicologia infatti è ormai di nuovo la strada per i problemi fondamentali»[34]. «Non bisogna erroneamente reificare ‘causa’ ed ‘effetto’, come fanno i naturalisti (e chi, analogamente a loro, naturalizza teoreticamente), in conformità alla meccanicistica buaggine dominante, secondo la quale la causa preme e spinge fino a ‘determinare l’effetto’; occorre servirsi appunto della ‘causa’ e dell’‘effetto’ soltanto come di meri concetti, cioè di finzioni convenzionali destinate alla connotazione, alla intellezione, non già alla spiegazione. Nell’‘in sé’ non esistono ‘collegamenti causali’, ‘necessità’, ‘non libertà psicologiche’, poiché in questo campo ‘l’effetto’ non consegue ‘dalla causa’ e non vige alcuna ‘legge’. Siamo noi soltanto ad avere immaginosamente plasmato le cause, la successione e la fun­zionalità di una cosa rispetto all’altra, la relatività, la costrizione, il numero, la norma, la libertà, il motivo, lo scopo; e se foggiamo e infondiamo nelle cose questo mondo di segni come un ‘in sé’, operiamo in ciò ancora una volta come abbiamo sempre operato, cioè in maniera mitologica. Il ‘volere non libero’ è mitologia: nella vita reale si tratta soltanto di forte e debole volere»[35].

G. Klimt, Vita e morte (1908-1915)

La «desolata monotonia» della riflessione nietzschiana sul rapporto uomo‑mondo deriva da questa riduzione metodologico‑esi­stenziale della teoria della conoscenza, per la quale l’«oggettività» è «invenzione», o «finzione», dell’«umano», un rapporto tra «soggetto» ed «oggetto» «finti», che serve a dare una struttura al divenire («storia della materia» come «storia del mondo»). In questo modo, mentre da un lato l’«oggettività» della cono­scenza è ridotta all’«umano in generale», dall’altro l’«umano in generale» è liberato da ogni contenuto ontologico‑metafisico e tradotto in uno schema metodologico, una «finzione», molto vi­cino all’«idealtipo» di Weber o all’«idea» di Husserl. L’«uma­no in generale» è la possibilità di dare o di avere significati, il movimento soggettivo e oggettivo dell’interpretazione, il processo di costituzione di senso della realtà che Nietzsche chiama «storia della materia». Ma più che processo di «costituzione», l’«umano in generale», in quanto pensiero del «troppo umano», è la sua possibilità, la fondazione del processo. Per questo, prima ancora di identificarsi con ciò che Husserl chiamerà «costituzione di senso», il pensiero dell’«umano in generale» anticipa la pro­blematica heideggeriana del «senso dell’essere in generale»[36].

La «desolata monotonia» di Nietzsche nasce allora da questo pen­siero dell’«umano in generale», che in quanto possibilità di sen­so, «senso dell’essere in generale», è il nulla, la riflessione sul nulla, la «ripresa» nel senso di Kierkegaard, della nullità fondamentale dell’uomo, che è, come dice Heidegger, «fondamento» (Grund) ed «abisso» (Ab‑grund).

Ancora una volta il pensiero di Nietzsche rivela la sua duplicità, che è la contraddizione della coscienza borghese, tra analitica e dialettica, analisi e teoria, materialismo e idealismo, scienza e memoria. Dissolvendosi nella memoria, l’analisi «a colpi di martello» dissolve la scienza nella contemplazione della problematicità, nella quale la «materia» diventa «materiale umano» senza storia, così come senza storia e senza materia resta la riflessione sul «senso dell’essere in generale», o dell’«umano in generale», che è l’ultima formulazione teorica dell’umanismo borghese. La «inversione» rovescia l’ordine della realtà, ma non lo modifica, perché è legata al movimento rimemorativo di un pensiero che resta strutturato nella ricerca, o fissazione, di un fondamento, tutto sommato, coscienziale della scienza, anche se il senso dell’«uma­no in generale» è un senso senza soggetto, così come l’«umano in generale» è un contenuto senza oggetto. Questo, che non è un superamento, ma una negazione dell’umanismo borghese‑cristiano tradizionale, kantiano‑hegeliano, positivistico e liberale, non distrugge le basi dell’ideologia borghese, ma le modifica, razionalizzandole in funzione di una nuova definizione scientifica e filosofica della cultura e dell’ideologia borghese nell’ultimo decennio del secolo XIX. Allo sviluppo monopolistico del capitalismo, che si trasforma in imperialismo, risponde, sul piano dell’ideologia, la esigenza di dare un nuovo assetto teorico e pratico alla scienza naturale e sociale, che da un lato sia conseguente ad un uso più razionale delle forze produttive esistenti, dall’altro risponda coe­rentemente al bisogno di rendere più efficienti i rapporti di pro­duzione capitalistici, recuperando i vecchi contenuti della società precapitalistica adattandoli alla «razionalità formale» dei nuovi rapporti di produzione. L’impotenza di Nietzsche è nell’inca­pacità del suo pensiero, strutturalmente ideologico in quanto rime­morativo, di comprendere l’oggettività storico‑sociale, che è il senso specifico della razionalizzazione delle forze produttive e dei rapporti di produzione del capitalismo monopolistico, la quale passa anche attraverso la rivolta di Nietzsche contro «il mondo» e contro «Dio», che è il «rovesciamento dei valori». Questo appa­re in modo particolare nella critica nietzschiana della società borghese. Nonostante il nuovo metodo della «filosofia storica», o «chimica» della realtà, l’analisi di Nietzsche, chiusa nella rime­morazione dell’«umano in generale», non può cogliere la speci­ficità oggettiva della «società borghese», che diventa sinonimo di «civiltà» o «società industriale», dove l’esistenza del lavoro salariato, o «lavoro astratto» (Marx), è spiegata in termini etici e umanistici, come «lavoro senza gioia», lavoro «come mezzo» e «non anche come scopo in sé». «Nei paesi civili gli uomini sono oggi tutti pari nel cercare lavoro per amore del salario»[37]. Se il capitalismo si identifica con la civiltà, la proletarizzazione diventa «amore del salario», e il lavoro astratto «amore del guadagno»: «per tutti il lavoro è un mezzo, e non anche lo scopo in sé; perciò sono poco sofistici nella scelta di esso, ammesso che pro­curi un buon guadagno»[38]. La «volontà di potenza» spiega il capitalismo come prodotto di tendenze antropologiche e psicologico‑esistenziali, il che riporta la pretesa «storia della materia» alla «storia della coscienza», alla memoria. Alla teoria classica del valore‑lavoro Nietzsche non contrappone una nuova concezio­ne del valore, sebbene egli proponga una visione e determinazione etica del «tempo di lavoro» che è molto vicina alle contempora­nee teorizzazioni soggettive del valore del marginalismo[39]. «Se si volesse determinare il valore del lavoro in base a quanto tempo, diligenza, buona o cattiva volontà, ingegnosità o pigrizia, onestà o apparenza vi siano stati impiegati, il valore non potrebbe essere mai giusto, perché si dovrebbe poter porre sul piatto della bilancia l’intera persona, ciò che è impossibile. Qui vige il ‘non giu­dicate’. Ma è proprio un’invocazione d’ingiustizia, quella che oggi sentiamo da coloro che sono scontenti della valutazione del lavoro. Se si procede nel pensiero, si trova che ogni personalità è irre­sponsabile del suo prodotto, il lavoro: da esso non si può mai derivare un merito, ogni lavoro è così buono o cattivo come in base a questa e quella necessaria costellazione di forze e di debo­lezza, di conoscenze e di aspirazioni deve essere. Non sta al beneplacito del lavoratore che egli lavori e neanche come egli lavori. Solo i punti di vista dell’utilità, più ristretti o più larghi, hanno creato la valutazione del lavoro. Ciò che noi ora chiamiamo ingiustizia, è in questo campo molto bene a posto come una utilità, altamente raffinata ... e tiene perciò presente anche il bene del lavoratore, la sua contentezza materiale e spirituale»[40]. L’esigenza di dedurre il «valore» del «lavoro» dall’«intera persona», rendendo così impossibile una analisi scientifica del processo di produzione, rivela ancora una volta l’effetto deformante della ca­tegoria nietzschiana del «troppo umano» sulla direzione scientifica, cioè oggettiva e materialistica, dell’analisi. La maggiore ade­guatezza della categoria dell’«utilità» ad esprimere e rappresen­tare la condizione antagonistica della produzione capitalistica, un’«ingiustizia» che nasconde una «più raffinata» utilità per i «lavoratori», è assunta direttamente da Nietzsche, come dagli economisti marginalisti, come dato naturale, condizione necessaria da cui la «civiltà», la «produzione industriale» e il «progresso» non possono prescindere. Il metodo della «filosofia storica», proprio perché tende a definirsi attraverso la «chimica delle idee e dei sentimenti», destoricizza la storia, riducendo la realtà oggettiva delle «idee», dei «sentimenti», della «produzione» e del «lavoro» a momenti ed elementi neutri di una fenomenologia trascendentale, il cui significato platonico, rilevato da Eugen Fink[41], deriva dall’oggettiva impossibilità di rimuovere il feticcio della memoria.

È indicativo non solo per Nietzsche, ma anche e fondamentalmente per la teoria borghese della scienza economica, che la determinazione del valore del lavoro attraverso l’utilità nasca dall’incapacità del pensiero borghese di riconoscere l’«astrazione determinata», come la definisce Marx, della produzione capitalistica, che è anche, nello stesso tempo, incapacità del pensiero di ricono­scere la oggettività della scienza. E se la coscienza borghese di Nietzsche è senz’altro più lucida ed avanzata di quella di ideologi o apologisti del capitalismo monopolistico, che lavorano consapevolmente a dare una giustificazione pseudoscientifica alla nuova teoria psicologica del processo produttivo[42], in quanto egli riconosce il carattere «decadente» e «nichilistico» della scienza borghese e positivistica, essa è costretta a restare prigioniera del suo feticismo. Di fronte all’«utile ingiustizia» del «capitale», Nietzsche si chiude nell’impotente rivolta romantica contro «Dio» e il «mondo», che diffonde tuttavia sulla realtà storica e sociale della disumanizzazione capitalistica l’effetto deformante della sua ideologia del «Freigeist», che è così vicina all’illusione weberiana dell’«oggettività avalutativa»[43]. La «libertà dai valori» diventa però in Nietzsche rimemorazione, tentativo di «riprendere» la «umanità» deformata dalla «macchina». «La macchina è impersonale, essa sottrae al pezzo di lavoro la sua fierezza, la sua individuale bontà e difettosità, ciò che rimane attaccato ad ogni lavoro non fatto a macchina, - quindi il suo pezzetto di umanità. Una volta tutte le compere da artigiani erano una distinzione delle persone dei cui contrassegni ci si circondava: gli oggetti di casa e gli abiti divenivano in tal modo simboli di reciproca stima e di affinità personale, mentre oggi sembra che viviamo solo in mezzo a un’anonima e impersonale schiavitù»[44]. La disumanizzazione capitalistica è alienazione tecnologica e distruzione del valore originario dei «prodotti» («valore d’uso»), che la «macchina» dissolve nell’impersonale oggettività sociale dello scambio («valore di scambio»). La società industriale distrugge, così, la umanità degli oggetti, dissolvendo il prodotto, con la concretezza delle sue qualità naturali ed umane, nell’anonimia della merce. Il ricordo dell’umanità diventa, allora, raccoglimento interiore e fuga dalla realtà: «vi sono rari uomini che preferiscono perire piuttosto che lavorare ad un lavoro senza gioia. Sono uomini diffi­cili e mai contenti, a cui non servirà un ricco guadagno, se il lavoro non sarà di per sé stesso il guadagno dei guadagni. Di questa specie di uomini fanno parte gli artisti e i contemplativi di ogni sorta, ma anche quei perdigiorno che trascorrono la vita nella caccia, nel commercio amoroso e nelle avventure» [45].

La riumanizzazione è fuga ed evasione, interiorità e memoria. Se il «lavoro», il «capitale» e la «macchina» sono visti come momenti necessari della malattia nichilistica che sta distruggendo la civiltà, involgarendola col denaro e lo sfruttamento, tutto il processo sociale e storico che costituisce il presupposto oggettivo dello sviluppo capitalistico resta escluso dalla memoria, che lo traduce nella fenomenologia della «volontà di potenza». Il che porta a identificare lo sfruttamento capitalistico con l’alienazione tecnologica, il «lavoro salariato» con la «schiavitù» o l’«ignominia dell’essere adoperati», il «valore del lavoro» con la sua «per­sonalità», la «macchina» con 1’«impersonalità». Svuotata di oggettività, la prassi sociale e storica diventa un gioco di «possibilità» e di «impossibilità» legate a «stati d’animo», «impulsi», «bisogni» e «idee». Significativo, a questo proposito, l’aforisma 206 di Aurora, che porta il titolo «La classe impossibile»: «Povero, lieto e indipendente! - queste cose insieme sono possibili; povero, lieto e schiavo! - anche queste sono possibili, e, della schiavitù di fabbrica, non saprei dire nulla di meglio agli operai, posto che essi non sentano in generale come ignominia il venire in tal modo adoperati, ed è quel che succede, come ingranaggi di una macchina e, per così dire, come accessori dell’umana inventività tecnica. È obbrobrioso credere che attraverso un più elevato salario la sostanza della loro miseria, voglio dire la loro impersonale condizione servile, possa essere eliminata! È obbrobrioso farsi convincere che attraverso un potenziamento di questa impersonalità all’interno del congegno meccanico di una nuova società l’ignominia della schiavitù possa essere trasformata in virtù! È obbrobrioso avere un prezzo, per il quale non si resta più persone, bensì si diventa ingranaggi ... Questa sarebbe la giusta disposizione d’animo: gli operai europei a partire da questo momento dovrebbero dichiararsi come classe un’impossibilità umana, e non solo, come in genere accade, qualcosa di duramente e inopportunamente organizzato; essi dovrebbero far giungere, nell’alveare europeo, il tempo dei grandi sciami emigratori, quali non ancora sino ad oggi si sono mai visti, e, attraverso quest’azione di liberi emigranti in grande stile, protestare contro la macchina, il capi­tale, la scelta che ora li minaccia, quella cioè di dover diventare o schiavi dello Stato o schiavi di un partito sovvertitore»[46]. Emerge ancora una volta la contraddittorietà insolubile di questa critica ideologica della società borghese, o della coscienza borghese, che occulta, mistificandola, la sua base reale, che è la struttura capitalistica. Il «rovesciamento dei valori sin’ora esistenti», che è critica della «filosofia metafisica» e creazione di un nuovo metodo di analisi, la «filosofia storica», che è critica di ogni forma di «sostanzialismo», «soggettivo» ed «oggettivo», quando raggiunge il terreno reale, «troppo umano», forse, del processo di produzione e riproduzione della vita sociale e culturale, recupera proprio quella categoria, metafisica ed umanistica, della «sostanza», che dissolve la materialità storica, sociale e naturale del «lavoro» nel pregiudizio morale della «personalità». L’«arte di rovesciare le prospettive» appare come il movimento soggettivo del pensiero che negando hegelianamente le negazioni, le recupera, dissolvendo la rivolta contro l’ordine esistente nella sua conservazione ed apologia. La protesta contro l’«ingiustizia» del «capitale», mentre da un lato riconosce l’«utilità» del «valore‑lavoro», dall’altro vagheggia il recupero precapitalistico di quella «sostanziale umanità» dell’oggetto lavorato, che la trasformazione capitalistico‑mercantile del «prodotto» in «merce» ha fatto smarrire. A questo livello, il ricordo della libertà del «liberum veto» dell’aristocrazia polacca, che è l’ideologia degli strati più conservatori dello Junkertum prussiano, legati alla rendita fondiaria ed all’economia premercantile e precapitalistica, acquista un significato più ampio per caratterizzare ideologicamente l’«anticapitalismo romantico» di un progetto di riumanizzazione della scienza, che si dibatte impotentemente tra l’«ignominia» del capitalismo e l’«obbrobrio» del socialismo.

L’esigenza di sottoporre i valori alla critica della scienza e, nello stesso tempo, di riumanizzare la scienza - che è tutto l’arco dell’esperienza teorica che va da Umano troppo umano alla Gaia scienza agli scritti sulla «volontà di potenza»-, si avvolge necessariamente nelle contraddizioni teoriche e pratiche del concetto di «troppo umano», in cui la nozione dell’«umano in generale» diventa «universale finzione»; l’aporeticità del pensiero borghese, scisso tra umanismo ed antiumanismo, ideologia e scienza, soggettivismo e oggettivismo, riappare nell’ambiguità costitutiva della «volontà di potenza», in tutte le sue implicazioni «ermeneutiche». Vi ritroviamo l’esperienza, propria della coscienza borghese nella più alta fase della sua crisi irrazionalistica, della «morte dell’uomo» come prodotto e presupposto della «morte di Dio». L’idea di una «riumanizzazione dell’umano», concepita in termini di critica ideologica dei «valori esistenti», e, in particolare, come scristianizzazione dell’«uomo malato», si risolve necessariamente in una fenomenologia della dissoluzione nichilistica della coscienza borghese, razionalistica ed umanistica, che perviene a quel «disincantamento» a cui Weber e Freud, accanto a Nietzsche, hanno condotto la cultura borghese in un radicale sforzo di autocritica; recupero e negazione dell’umano, affermazione e perdita del senso,dimenticanza e ricordo, sono operazioni della coscienza critica incapace di fondare una conoscenza oggettiva della propria realtà, che appare sempre una «possibilità», vicina o lontana, più o meno reale, secondo la disponibilità di senso del soggetto.

L’antinomia della coscienza borghese, stretta in questa circo­larità di affermazione e di negazione, è descritta da Thomas Mann attraverso due figure nietzschiane, l’«ironia» e il «radicalismo». «Radicalismo è nichilismo. L’uomo dotato d’ironia è conservatore. Un conservatorismo, tuttavia, è ironico solo quando non rappresenta la voce della vita che anela a se stessa, bensì quella dello spirito che non s’interessa di se stesso ma della vita»[47]. È l’irri­ducibilità dell’«aut‑aut» «fra essere ironico o radicale»: «Per il radicale, la vita non è un argomento che conta. Fiat justitia o veritas o libertas, fiat spiritus: pereat mundus et vita! Così parla ogni radicalismo. La formula dell’ironia sta invece in questa domanda: ‘La verità è forse un argomento valido, quando ne va della vita?’» (loc. cit.). La contrapposizione tra «spirito» e «vita» è la forma estrema in cui la coscienza borghese comprende la scissione insuperabile tra il pensiero e la materia, l’individuo e la storia, la soggettività e l’oggettività, il senso e l’essere, ecc. Che questa antinomia venga posta e compresa, da Nietzsche e da Mann, così come da Dostoevskij (Le memorie del sottosuolo), da Ibsen (L’anitra selvatica) e da Kierkegaard (Timore e tremore) come «aut‑aut» della coscienza individuale, una condizione, cioè, inerente alla natura della soggettività, e non come un prodotto storico‑sociale di contraddizioni oggettive, evidenzia il carattere di ideologicità di questa comprensione, che soltanto Lukács, in Storia e coscienza di classe, riesce a storicizzare[48]. Se lo «spirito» nasce dalla «malattia», e conduce, educando al nichilismo, all’«istinto metafisico», «l’utopia sterile dello spirito assoluto, dello ‘spirito per lo spirito’, che è più rigido e freddo di una qualunque art pour l’art e non deve stupirsi se la vita diffida di lui»[49], la «vita», in quanto «erotismo», che è «l’accettazione di una persona, indipendentemente dal suo valore», per cui la «ve­rità» è «errore» e «menzogna», e lo «spirito», in quanto «verità», è «nichilismo», la vita, «foggiata» in modo da «non sentire più il bisogno dello spirito (e magari nemmeno dell’arte): è un’utopia anche questa? Allora è un’utopia nichilistica, nata dal­l’odio e dalla negazione tirannica, dal fanatismo della purezza»[50].

«Spirito» e «vita», pur escludendosi come «malattia» e «salute», si ritrovano nell’unità antinomica della coscienza erotica, che è «nostalgia» e «conservatorismo»: «La nostalgia infatti fa la spola tra lo spirito e la vita. Anche la vita ha nostalgia dello spirito. Vita e spirito sono due mondi che stanno fra loro in rapporto erotico, senza che però risulti evidente la loro polarità sessuale, che l’uno rappresenti proprio il principio maschile e l’altro quello femminile. Per questo non può darsi tra di loro un vero congiungimento, bensì soltanto l’illusione, effimera quanto esaltante, di tale unione e comunione, una tensione perpetua che non conosce soluzione... Questo è il problema della bellezza: lo spirito prende per ‘bellezza’ la vita, la vita invece vede la bellezza nello spirito ... Lo spirito che ama non è fanatico, è spiritoso, politico, fa la corte e il suo far la corte è ironia erotica. Per questo fenomeno abbiamo anche un termine politico: ‘conservatorismo’. Che cos’è il conservatorismo? L’ironia erotica dello spirito»[51].

Ironia ed erotismo riscopriamo anche in una delle forme più razionali e critiche in cui la coscienza borghese teorizza la scienza, fondandola non più su istanze umanistiche e ideologiche della tradizione kantiano‑hegeliana, ma su una interpretazione ed utilizzazione metodologica dell’«umano in generale», che si definisce antiumanistica, nella misura in cui pretende di «superare» il soggettivismo della teoria borghese della conoscenza, definendo la specificità teorica dell’analisi scientifica. E questo avviene, dice ad esempio Michel Foucault, proseguendo idealmente la critica nietzschiana al sostanzialismo del «soggetto» e dell’«oggetto», quando «ci si è accorti che ogni conoscenza umana, ogni esistenza umana, ogni vita umana, e forse persino ogni ereditarietà biologica dell’uomo, è presa all’interno di strutture, cioè all’interno di un insieme formale di elementi obbedienti a relazioni che sono descrivibili da chiunque, l’uomo cessa, per così dire, di essere il soggetto di se stesso, di essere in pari tempo soggetto e oggetto. Si scopre che quel che rende l’uomo possibile è in fondo un insieme di strutture, strutture che egli, certo, può pensare, può descrivere, ma di cui non è il soggetto, la coscienza sovrana. Que­sta riduzione dell’uomo alle strutture che lo circondano mi sembra caratteristica del pensiero contemporaneo, per cui, allora, l’ambiguità dell’uomo, in quanto soggetto e oggetto, non mi sembra più attualmente un’ipotesi feconda, un fecondo tema di ricerca»[52]. Le «scienze umane», nate come ideologia dell’umani­smo, non hanno più bisogno dell’«uomo», dal momento che esse «non ci conducono affatto alla scoperta di qualcosa che sarebbe umano» - la verità dell’uomo, la sua natura, la sua nascita, il suo destino -; bensì «di qualcosa di diverso dall’uomo» di «sistemi, di strutture, combinatorie, forme ecc.. Dunque, se vogliamo occuparci seriamente di scienze umane bisogna anzitutto distruggere quelle chimere obnubilanti costituite dall’idea di cercare l’uomo». Ma dietro questa riduzione dell’«uomo» a «struttura» c’è il nichilismo di Nietzsche, la «morte di Dio» che è «morte dell’uomo», che non è soltanto la «scomparsa dell’uomo in generale», come dice Foucault. Se, come dice Nietzsche, l’uomo, come soggetto, è un’«ipotesi», una «creazione», di cui la scienza può fare a meno, e se, come dice Foucault, il «senso» della scienza è l’insieme delle condizioni formali («strutture», «sistemi», «forme», ecc.) che rendono possibile la determinazione dell’«oggetto» e il suo «modo di funzionare», indipendentemente da «chi» o «per che cosa» funziona, allora vuol dire o che la scienza ha trovato il suo fondamento nella sua logica interna, o che alle spalle della scomparsa dell’«uomo» dalla scienza non c’è solo una variazione di metodo nella scienza come tale, ma una crisi storica e sociale, che va al di là della metodologia, anche se la investe radicalmente. Il circolo chiuso della «desolata monotonia» in cui si dibatte l’impossibilità di superare l’antinomia del pensiero borghese, teso tra una ricerca del «senso umano» della scienza che diventa, nello stesso tempo, radicalizzazione scientifica dei «valori». Se per la scienza l’uomo è una ipotesi non necessaria, se l’umanismo disturba la razionalità, ciò non elimina l’esigenza di una ricerca del «senso», dentro o fuori la scienza, che costringe Nietzsche, ad esempio, a teorizzare la «morte dell’uomo» e la «morte di Dio» come momenti dialettici della infinita ripresa del «troppo umano». La logica della ripresa, o «ripetizione», del problema del senso, come si pone in Kierkegaard, e nello stesso Heidegger (Essere e tempo), è la memoria, nella quale significativamente Heidegger riconosce il nucleo teorico della «storia della metafisica occidentale»[53]. La reciprocità antagonistica in cui il pensiero borghese comprende la formalizzazione della scienza e la riumanizzazione del «senso», che è l’antinomia tra umanismo e antiumanismo che le filosofie neopositivistiche da un lato, le filosofie ontologico‑esistenziali dall’altro portano alle estreme conse­guenze, riproduce e generalizza la condizione propria della coscienza borghese, tesa nell’«aut‑aut» tra «radicalismo» ed «ironia», tra rifiuto ed accettazione di una realtà che resta sempre immobile ed estranea.


[1] F. Nietzsche, Mein Leben, in Werke in drei Bänden, München, 1960, III Bd., p. 109.

[2] F. Nietzsche, op. cit., p. 110.

[3]L’interpretazione «esistenziale» della malattia di Nietzsche (cfr. K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verstdändnis seines Philosophierens,Berlin, 1936, p. 93 e sgg.) trova il suo limite non nell’insufficiente «esistenzializzazione» del senso della malattia nietzschiana (cfr., per questo punto di vista, il nostro saggio Analitica e dialettica in Nietzsche, Bari, 1965, p. 138), bensì nel rifiuto o incapacità, di comprendere Nietzsche, e la sua malattia, come oggetti storico‑sociali.

[4] L’autoanalisi dell’Ecce Homo prosegue, infatti, ideologicamente, nella Lettera al padre di Kafka, e nelle Mosche e Le parole di Sartre, nella direzione della critica psicoanalitica del carattere repressivo della «civiltà», vicina all’antropologia freudiana.

[5] F. Nietzsche, Autobiographisches aus des Jahre 1856, in op. cit.., p. 9.

[6] Se per Hegel «possiamo considerare effettivamente l’essenza come l’essere passato» e per Heidegger il «problema del senso dell’essere» passa attraverso la «ripetizione» della «domanda sull’essere», per cui «l’essere dell’ente presente si trova sempre già in un p a s s a t o». (H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, Firenze, 1969, p. 86), allora non soltanto la «dottrina dell’essenza» si pone come ricordo del «passato» (Gewesen) (Hegel), ma tutta la filosofia, in quanto metafisica, da Platone ad Hegel, come dice Heidegger, è «rimemorazione» (Erinnerung) (M. Heidegger, Nietzsche, II, Tübingen, 1961, pp. 481‑490).

[7] F. Nietzsche, Willensfreiheit und Fatum, in Jugendschriften, München, 1922, p. 69.

[8] F. Nietzsche, loc. cit..

[9] F. Nietzsche, loc. cit..

[10] M. Cacciari, Sulla genesi del pensiero negativo, in «Contropiano», Fi­renze, 1969, n. 1, pp. 181-187; K. Löwith, Critica dell’esistenza storica, Napoli, 1968, pp. 60-120.

[11] F. Nietzsche, Fatum und Geschichte, in op. cit., pp. 65-66.

[12] F. Nietzsche, op. cit., pp. 60‑64.

[13] F. Nietzsche, op. cit.., pp. 65-66.

[14] F. Nietzsche, Über das Christentum-Fragment, in op. cit., p. 70.

[15] F. Nietzsche, op. cit.., p. 71.

[16] In questo senso, la teologia della morte di Dio (Altan, Bonhoeffer, ecc.), la teologia della demitizzazione (Bultmann) e la vasta problematizzazione, nella teologia protestantica, del tema della «secolarizzazione» (Barth e Gogarten), trovano nell’«umanismo ateo» di Nietzsche il termine di riferimento ideologico e storico‑culturale su cui recuperare un’antropologia cristiana (cfr. i volumi Kerygma und Mythos, Tübingen, 1965-69, con scritti di Bultmann, Jaspers, ecc.; La morte di Dio, Milano, 1969, con scritti di Altmann, Bonhoeffer; D. Bonhoeffer, Etica, Milano, 1969; F. Gogarten, Verhängnis und Hoffnung der Neuzeit, München und Ham­burg, 1966). L’utilizzazione che la teologia esistenziale, in particolare Karl Barth, ha fatto di Nietzsche, come di Kierkegaard, per rifondare, sul piano di una antropologia esistenziale, costruita con categorie «trascendentali» jaspersiano‑heideggeriane («trascendenza», «scacco», «esistenziale» contrapposto ad «esistentivo», «ontologico» distinto da «ontico», ecc.), il cristianesimo che proprio Kierkegaard e Nietzsche avevano distrutto, è l’ultimo evento della generale reazione della teologia dogmatica contro il processo di storicizzazione del cristianesimo post‑hegeliano, che inizia con la «sinistra hegeliana», con Bruno Bauer e Ludwig Feuerbach e culmina con Marx ed Engels, proseguendo ancora con la «teologia liberale» dello storicismo tedesco. La possibilità di utilizzare l’umanismo ateo di Nietzsche come reazione alla storicizzazione del cristianesimo, ha lo scopo di restaurare, su premesse irrazionalistiche, il valore «storico‑ontologico» (nel senso della Geschichtlichkeit heideggeriana) del «Cristo», come dimensione «eterna» della critica nietzschiana del cristianesimo, di cui, al pari di Feuerbach, Nietzsche non riesce ad avere una comprensione storico‑sociale. Questo spiega il limite ideologico della rivolta anticristiana di Nietzsche e della correlativa aporeticità irriducibile dell’umanismo ateo (cfr. il nostro Kierkegaard, Nietzsche, Heidegger. L’ontologia fondamentale, Milano, 1964, pp. 39-80). Prima ancora che fosse sottolineata e studiata da Jaspers e da Löwith (K. Jaspers, Nietzsche und das Christentum, München, 1952; K. Löwith, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, Stuttgart, 1956), la fondamentale continuità tra 1’umanismo ateo di Nietzsche ed il cristianesimo era sufficientemente chiara agli studiosi della prima storiografia nietzschiana, quale, ad es. Albert Kalthoff il quale notava come la «nuova umanità» di Nietzsche, in quanto «nuova cultura», superando il cristianesimo, facendo dell’uomo un «fine in sé», e della «vita» la «legge» dell’esistenza, assumesse «infine l’eternità come il contenuto di questa cultura», riconoscendo nel «sacro» il «Dio morto», cioè il divenire come «creazione» e «creatività», come «eterno divenire» (A. Kalthoff, Zarathustrapredigten, Jena, 1908, pp. 4, 10, 94, sgg.).

[17] F. Nietzsche, Ecce Homo, Torino, 1965.

[18] Il soggiorno di Nietzsche a Lipsia, e la sua collaborazione al lavoro del circolo dei filologi raccoltisi intorno a Friederich Ritschl (1865‑1869), fu decisivo per lo sviluppo critico, ed antipositivistico, della sua formazione intellettuale, che resta profondamente colpita da quell’«ascetismo» della ricerca filologica, in cui, nella sua età più matura, egli scorge il fonda­mento nichilistico della scienza moderna. Al ’67, infatti, appartengono i frammenti che portano il titolo Su storia e scienza storica: «Solo il singolo produce i grandi pensieri»; «Le convinzioni della massa hanno sempre qualcosa di medio (etwas Halbes) e di vago»; «Per questo gli impulsi della massa sono più potenti di quelli del singolo» (F. Nietzsche, Aufzeichnungen über Geschichte und historischer Wissenschaft, in Jugen­dschriften, cit., p. 237). Il contrasto irriducibile singolo‑massa appare, al livello individuale, come conflitto tra «pensiero» ed «istinto»: «Ciò che per alcuni è un impulso è per altri spesso una visione, un concetto»; «Una storia del pensiero in contrasto con una storia dell’impulso»; «La vita etica e le rappresentazioni etiche non sono necessariamente paral­lele» (Ibidem). Poi, ancora, l’anticipazione di un tema essenziale della posteriore meditazione nietzschiana, il nichilismo della «scienza» e della «ragione» moderne: «La scienza ha qualcosa della morte. Specialmente l’etica è dannosa alle buone qualità dell’uomo»; «L’istinto per agire bene è questo, ma non si deve guardarlo coscientemente. Guarda, questo è amore e psiche» (Ivi, p. 239); «Il medium da cui lo storico guarda, sono le sue proprie rappresentazioni (anche il suo tempo) e le sue fonti» (Ivi, p. 241); «Anche il principio degli studi scientifici deve essere lavoro per il prossimo»; «La forza poetica e l’istinto creativo hanno fatto il meglio nella filologia. I maggiori effetti li hanno ottenuti alcuni errori belli»; «La saggezza del pensiero tranquillo, che resta chiuso nella camera da studio, ha poco diritto ad una buona stima nella storia della scienza»; «I filologi maggiori sono operai che lavorano nell’oscurità della scienza» (Ivi,pp. 251‑252); «Dove sta la fecondità della filologia?... Generalmente, dove i suoi studi costituiscono una Umanità‑Generale (Allgemeinen Menschliches), così il suo più bel trionfo è la ricerca del linguaggio che si unisce alla sua prospettiva filosofica» (Ivi, p. 254). Si­gnificativo, anche, lo scritto Frammento di una critica della filosofia di Schopenhauer, del ‘67, che anticipa la rivolta di Nietzsche contro Wagner e Schopenhauer, quale si esprime nelle opere successive alla Nascita della tragedia. La «critica» di Nietzsche è una rivalutazione del pensiero di Kant di fronte a quello di Schopenhauer: questi, infatti, non può superare il dualismo kantiano, perché la «cosa in sé», la «volontà di vivere» e una «categoria presupposta», a cui si perviene attraverso una «intuizione poetica» ma che, restando «impensabile», non può es­sere «rappresentata» neanche nei termini schopenhaueriani dell’opposi­zione tra «volontà» e «rappresentazione» (Ivi, p. 257).

Tutta la produzione letteraria anteriore alla Nascita della tragedia, con­tiene spunti interessanti e stimoli che anticipano sostanzialmente, come afferma Richard Blunck nella sua opera sulla fanciullezza e la giovinezza di Nietzsche i temi fondamentali del pensiero maturo di Nietzsche: l’ateismo, il rovesciamento dei valori, la relatività della morale, il supe­ramento dell’uomo, il superuomo, la critica della «coscienza» e dello «spirito» del socialismo e della democrazia (R. Blunck, Friederich Nietzsche, Kindheit und Jugend, München‑Basel, 1953, pp. 75-81 e sgg.). La fondamentale continuità teorica tra gli scritti giovanili di Nietzsche, in particolare Fatum und Geschichte e Willensfreiheit und Fatum, col te­ma dell’«eterno ritorno dell’eguale» è riconosciuta anche da Karl Löwith, in L’interpretazione nietzschiana della teoria dell’eterno ritorno, in Significato e fine della storia, Milano, 1963, pp. 286‑294. L’opera più ampia e completa, forse, sulla vita e la produzione scientifica di Nietzsche, resta quella di Charles Andler, Nietzsche sa vie et sa pensée, Paris, 1958, che in tre grossi volumi analizza tutta l’opera di Nietzsche, distinguendola, secondo lo schema triadico comunemente seguito da quasi tutti gli studiosi di Nietzsche, in una fase, che segue la giovinezza, do­minata da «pessimismo romantico» (1869-1876), sotto l’influenza di Wa­gner e Schopenhauer, in una seconda, caratterizzata da «positivismo scettico» (1876-1881), in una terza, infine, o della «ricostruzione» (1882-1888).

[19] Nonostante la fiducia romantica nella musica di Wagner e nella filosofia di Schopenhauer, La nascita della tragedia è già decisamente volta a costruire un metodo di analisi critica e scientifica dell’estetica, il cui pri­mo nucleo teorico è da rintracciare negli scritti giovanili di Nietzsche, particolarmente gli aforismi su Storia e scienza storica, dove resta trac­cia della lettura della Storia del materialismo di Lange, apparsa nel l866 (W. Del Negro, Die Rolle der Fiktionen in der Erkenntnistheorie Frie­derich Nietzsches,München, 1923, p. 87). Questo ridimensiona, anche se non invalida, la tripartizione classica dominante nella storiografia nietzschiana, che caratterizza la Nascita della tragedia come l’opera rappresentativa della fase estetico‑romantica del pensiero di Nietzsche (E. Förster‑Nietzsche, H. Lichtenberger, C. Andler). Ciò che questa valutazione mette in ombra, in quest’opera di Nietzsche, è proprio il suo specifico carattere di rottura teorica della filosofia idealistico‑positivistica e del­l’ideologia progressista del capitalismo industriale degli anni ‘70, che so­no le tendenze di una cultura socialmente e politicamente legata alle vecchie classi agrarie che dopo il ‘48, ed ancor più durante il regime bismarckiano, accettano la «razionalità» del capitalismo‑monopolistico e, nella misura in cui commercializzano la vecchia rendita fondiaria, tra­sferiscono la propria ideologia dai dogmi della teologia e della filosofia idealistica nel mito positivista della scienza e del progresso, nel darwini­smo sociale e nel razzismo. Sono le stesse tendenze che Nietzsche criticò e rigettò, inutilmente, perché risorsero, nelle forme più varie dell’irrazio­nalismo estetizzante, del vitalismo e della decadenza neoromantica, as­sorbendo e mistificando elementi autentici del pensiero nietzschiano - la sua stessa sorella, Elisabeth Förster‑Nietzsche che scrisse la prima bio­grafia dell’opera di N., Das Leben Friederich Nietzsches -, a cui si deve in parte, la creazione del mito del «niccianesimo» (Nietzschentum), che, dice Julius Zeitler nel suo libro Nietzsches Aesthetik, Leipzig, 1900, è una «leggenda», uno «spettro», «una favola assurda» e «una brutta esagerazione» che nell’ultimo decennio dell’Ottocento è diventata di «moda» in «certe conventicole letterarie», che tuttavia è destinata a dissolversi, perché «Il mondo non è più così acritico, che possa tollerare una ‘setta nicciana’» (p. 18), per cui, dice l’Autore, anche se «l’influen­za di Nietzsche sulla gioventù è diventata esagerata», il niccianesimo «è uno spettro nella testa dei suoi sconsiderati avversari» (p. 20). Nono­stante il rifiuto di fare di Nietzsche un «culto», lo Zeitler sostiene la priorità, nell’opera di N., dell’elemento «estetico‑artistico», dove «stan­no le radici centrali della sua personalità», sull’elemento «etico‑­socia­le» o «scientifico» (p. 5). Con questa ottica, l’A. vede nella Nascita del­la tragedia la prima espressione di una «estetica metafisica», in cui «L’arte vale come strumento di dominio sul popolo», secondo l’ispirazione wagneriano‑schopenhaueriana; a questa prima fase «dionisiaca», seguirebbe la seconda fase, «apollinea», positivista e critica, dell’estetica di N., e, infine, la terza, caratterizzata dalla teoria del «superuomo», che è «l’estetica fisiologica», «l’estetica del signore», «l’estetica della potenza», che fonda l’arte sul principio di una «psicologia del senti­mento estetico», che pur non essendo una «scienza rigorosa», riferen­dosi alla totalità dell’essere umano, possiede un «valore specifico per la scienza» (pp. 13‑14). In conclusione, «Nietzsche non era un pensatore, un filosofo, un moralista, né un uomo di scienza - ma un artista» (pp. 15‑16); per questo, la sua critica alla morale non è «morale» (Sim­mel), ma «estetica», perché la «riduzione della morale all’estetica» è il suo «valore decisivo» (p. 290), e perché, accanto a Goethe, egli ha pro­posto l’ideale «classico» dell’«umanità», come «unità di forma e di contenuto» (pp. 307-308). Lo stesso privilegiamento dell’elemento esteti­co‑romantico, pur se variamente rielaborato, fa dire ad Ernst Bertram, che la «profezia» di Nietzsche è legata allo «spirito della musica», co­me espressione massima dello «spirito tedesco», dell’«anima tedesca», del «senso» o dell’«essenza tedesca», che è la «filosofia del germane­simo» per cui Nietzsche appare come il «destino dello spirito tede­sco», «…il mistero tragico dionisiaco del divenire eterno» (E. Bertram, Versuch einer Mythologie, Berlin, 1920, pp. 65, 70, 90 e sgg.). La stessa caratterizzazione neoromantica e schopenhaueriana del pensiero di Nietz­sche che ritroviamo in Ernst Bertram e Thomas Mann la vediamo sot­tolineata in uno dei primi libri scritti su Nietzsche, da Wilhelm Weigand, Friederich Nietzsche. Ein psychologischer Versuch, München, 1893, in cui si sottolinea l’«ideale di vita» di Nietzsche essere l’«individuo illi­mitatamente sviluppato», che, sulla base dell’assimilazione dei più vari filoni della cultura europea tradizionale, «vuole rivivere tutto, vuole ricreare in sé il tutto, vuole avere esperienza di tutto» (p. 45); e da questa presunta sintesi romantica della cultura tradizionale, il pensiero di Nietzsche viene caratterizzato all’interno dell’ideale di vita aristocra­tico e individualista «che solo il passato contiene»: «Come autentico filosofo, Nietzsche proviene da Schopenhauer: entrambi, maestro e di­scepolo, assumono la potenza originaria come il fondamento immanente di ogni vita» (p. 49). In una prospettiva simile, Nietzsche appare l’«espressione personale» di un conflitto ideologico‑culturale proprio del «nostro tempo» che oppone «individualismo» e «socialismo» (T. Ziegler, Friederich Nietzsche,Berlin, 1900), oppure, la più vigorosa reazione dell’«individualismo aristocratico» alla «degradazione» e «svalorizzazione dell’uomo», a cui conduce il «naturalismo senza Dio» della «scienza»,­ dell’«intelletto» e della «politica», per «elevare» l’«umanità» con la «creazione di una nuova più elevata cultura» (U. Lauscher, Frie­derich Nietzsche, Essen, 1909, pp. 33, 169-171). Infine, per caratterizzare ancor meglio le «tendenze» della prima storiografia nietzschiana è si­gnificativo come il pensiero di Nietzsche, oltre ad essere comunemente legato a quello di Schopenhauer e Darwin. venga «unificato» come l’ultima fase dell’«imperialismo di Gobineau»: «Con i nomi delle due divinità, che così spesso Nietzsche richiama, Apollo e Dioniso, ho simbo­leggiato da un lato la tendenza imperialistica, utilitaristica e stoica del suo spirito, e dall’altra il suo continuo misticismo romantico» (E. Seilliére, Apollo oder Dionvsus? Kritische Studie über Friederich Nietzsche?, Berlin, 1906, p. VI; cfr. anche F. Muckle, Friederich Nietzsche und der Zusammenbruch der Kultur, München u. Leipzig, 1921, dove la prospet­tiva spengleriana porta l’A. ad individuare e ricostruire in Nietzsche l’«anima più profonda del germanesimo», della cui «essenza», il «go­tico» e il «romantico» - Rembrandt, Rubens, Klopstock, Novalis, Schil­ler, Fichte e Hegel - sono parti fondamentali): «Tedesco nel senso di Nietzsche è la predilezione per il misterioso in cui le anime si smarri­scono» (p. 324). Nella storiografia degli ultimi venti anni prevale, invece, una tendenza più critica, che tende ad una comprensione meno ideologica e più scientifica del «dionisiaco» di Nietzsche, visto come atteggia­mento illuministico, fiducia nel potere assoluto della ragione umana, principio di «integrità intellettuale» (O. Manthey‑Zorn, Dionysus. The Tragedv of Nietzsche, Amherst College Presse, 1956, pp. 1‑11 e sgg. Per un’ulteriore analisi della storiografia contemporanea sulla Nascita della tragedia, cfr. anche il nostro saggio Analitica e dialettica in Nietzsche. Bari, 1965, pp. 7-68).

[20] F. Nietzsche, La Nascita della tragedia, Bari, 1967, con Introduzione di P. Chiarini, p. 29.

[21]Cfr. C. Andler, op. cit.., vol. II, pp. 264-619.

[22] F. Nietzsche, Umano, troppo umano I, Milano, 1965, p. 3.

[23] F. Nietzsche, op. cit.., p. 15.

[24] F. Engels, Ludwig Feuerbach, Roma, 1969, pp. 59-60.

[25]F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Milano, 1968, p. 7.

[26] F. Nietzsche, Genealogia della morale, in op. cit.., pp. 218-219.

[27] F. Nietzsche, op. cit.., pp. 253-254.

[28] Cfr. H. G. Gadamer, Il problema della coscienza storica, Napoli, 1969; L. Pareyson, Verità e interpretazione, Milano, 1971.

[29] K. Schlechta, Nachwort a F. Nietzsche, Werke in drei Banden, cit., III, p. 1438; cfr. anche dello stesso A., Der Fall Nietzsche, München, 1958, che anticipa il contenuto del Nachwort citato. Negando che in Nietzsche pos­sa ricostruirsi una filosofia, lo Schlechta dedica particolare attenzione agli studi filologici giovanili di N., tra cui domina lo scritto Homer und die klassische Philologie (Der junge Nietzsche und das klassische Alter­turn,Mainz, 1948) ed allo stile linguistico (Nietzsches Grosser Mittag, Frankfurt a. M., 1954).

[30] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., p. 19.

[31] F. Nietzsche, Der Wille zur Macht, Leipzig, 1917, p. 159.

[32] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., pp. 21-22.

[33] Cfr. Analitica e dialettica in Nietzsche, cit., pp. 69-142. La «psicologia» è uno degli aspetti centrali, e più problematici, del pensiero di N. su cui tutta la storiografia ha sempre variamente discusso, nei primi decen­ni del secolo in una prospettiva fondamentalmente individualistico‑irra­zionalistica («L’identificazione del ‘corpo’ - “Leib” - e del “sé” - ‘Selbst’ - è un mistero nella filosofia di Nietzsche al cui pieno supe­ramento Schopenhauer dà per primo la chiave: il ‘Leib è la ‘vo1ontà oggettivata’, la volontà rappresenta però l’individualità umana, la vo­lontà è del tutto analoga al ‘Selbst’») (S. Flemming, Nietzsches Meta­physik und ihr Verhältnis zu Erkenntnistheorie und Ethik, Berlin, 1914, p. 78; «Con la dottrina dell’inconscio è stato fatto ancora un passo più avanti dal materialismo all’idealismo: se infatti tutto ciò che accade nella vita è una attiva determinazione del nostro Selbst, allora in effetti il mondo esterno deve appartenere ad una magia, non può avere real­tà» (op. cit., p. 105). Anche qualsiasi creazione di valore, di una norma morale è conoscenza del Selbst attraverso l’io, dell’individualità in­conscia, attraverso la coscienza. Qualsiasi massima è anche una rivela­zione del Selbst. Individualismo gnoseologico e individualismo etico sono legati da un individualismo metafisico (Ivi, pp. 93-94). La «nuova immagine del mondo» che N. elabora, in alternativa alla tradizione cul­turale dell’«Occidente», è la «problematicità dell’uomo» (Fragwürdigkeit des Menschen), che significa che «l’uomo è degno di essere messo in questione», «l’uomo è l’animale non ancora problematizzato» (H. Prinzhorn, Nietzsche und das XX. Jahrundert, Heidelberg, 1928, pp. 43 e 44); al di là della «immagine biologica» e «meccanicistica» dell’uomo, propria del XIX secolo, N., secondo l’A., scopre il fondamento dell’«umanità» nella «corporeità» (Leiblichkeit), categoria della feno­menologia husserliana. che rende possibile a N. anticipare la teoria freu­diana della «sublimazione degli istinti» (p. 57) e, superando la psico­logia «atomistica», «associazionista» e «organicista», porsi come «psi­cologia disincantante», «smascheramento delle illusioni» (p. 90), secondo una prospettiva critica che si ritrova in Max Weber, in Max Scheler, in Karl Jaspers e che trasferisce la sua maggiore eredità teorica nella «carat­terologia» di Ludwig Klages, autore di una delle opere più significative della prima storiografia nietzschiana, Die psychologischen Errungens­chalten Nietzsches, Bonn, 1958 (I ed. 1926), in cui la «psicologia disin­cantante» di N. è per la prima volta caratterizzata come critica delle «autoillusioni di valore» (Ivi, pp. 46‑47). Il «dionisiaco» è la categoria «nuova» di questa psicologia fondamentale, che è il principio della «vita»: «Noi andiamo incontro al nostro incerto destino col più ele­vato desiderio, che nella lotta tra Dioniso e Socrate, questi non sia vin­citore ma utilizzi le sue forze spirituali al servizio della vita, che è più di ogni ragione. Questo vuol dire per noi vivere, agire e pensare nello spirito di Friederich Nietzsche - questa è la sua sveglia per il XX secolo» (H. Prinzhorn, op. cit.., p. 137). La degenerazione e volgarizzazione di questo principio della «vita» in una visione vitalistico‑­razzista del pensiero di N., come dice lo stesso Prinzhorn, si trova in Heinrich Rickert (Die Philosophie des Lebens, in Den Manen Friederich Nietzsches Weimarer Weihgeschenke zum 75 Geburtstag der Frau Elisabeth Förster‑Nietzsche, München s. d., pp. 3-17), per il quale l’ideale sociale dell’individualismo aristocratico si fonda sulla «purezza biologica» e sulla «razza», ma anche in altri collaboratori all’opera citata, quale Bruno Bauch (Friederich Nietzsche und das aristokratische Ideal), Kurt Breysig (Das Geflecht der Triebe: Selbstbereichung und Selbsterweiterung), Walter vo Hauff (Die Ein­heitlichkeit der Gedankenwelt Nietzsches), Martin Havenstein (Nietzsche als Erzieher), Richard Oehler (Unsere Zeit im Spiegel von Nietzsches Kulturphilosophie), Friedrech Würzbach (Dionysos), in cui prevale la tendenza interpretativa, ispirata ad una esplicita deformazione irra­zionalistica, alla ideologizzazione del pensiero nietzschiano del «dioni­siaco» in funzione di conservazione della più vecchia cultura individua­listica nell’ambito di un «nuovo ordine sociale» fondato sulla «priorità assoluta» della «personalità» (pp. 127‑141). Sull’interpretazione antro­pologico‑vitalistica dell’opera di N., come ideologia della «forza», del­1’«istinto», ecc., cfr. anche il libro di Ursula Steiff, Friederich Nietzsches Philosophie des Triebes, Würzburg, 1940. Secondo Thomas Mann, invece, anche se il «concetto di vita» è «il più tedesco, il più goethiano e in elevata misura il più religioso‑conservatore» degli ideali agenti in N., «Non c’è da dubitare: incolume dalla profonda germanicità del suo spirito, Nietzsche ha contribuito con il suo europeismo all’educazione criticista, all’intellettualizzazione, psicologizzazione, letterizzazione, radicalizzazione o, per non evitare la parola politica, alla democratizzazione della Germania più di qualsiasi altro pensatore» (Einkehr, in Den Manen Friederich Nietzsches, cit., p. 226). Nella vasta letteratura filosofica contemporanea, ispirata alla valorizza­zione degli elementi etico‑personalistici della psicologia nietzschiana, pre­vale, particolarmente nella cultura tedesco‑occidentale, quella tendenza ideologica di apologia «indiretta», per riprendere la distinzione lu­kácsiana tra le due forme fondamentali dell’irrazionalismo, quello fa­scista e quello post‑fascista (La distruzione della ragione), della cultura e dell’etica borghese. Esplicito esempio di questa tendenza ritroviamo nel libro di Robert Reininger, Nietzsche e il senso della vita, Roma, 1971, dove la riflessione nietzschiana sulla scienza e sulla «tra­mutazione dei valori», viene recuperata alla costruzione di un’«etica scientifica», in cui la «scienza etica» confluisce con l’etica, definendosi come «razionalismo etico», alla cui base c’è l’identificazione della «ra­zionalità» del «senso della vita» col valore assoluto della «personalità»: «...ogni spirito affine a Nietzsche, avente la sua stessa specie di fierez­za, respingerebbe con sdegno l’idea così diffusa, che gli obblighi etici derivano per l’uomo solo dalla vita in comune con gli altri; anzi una simile idea in fondo egli non potrebbe nemmeno concepirla» (p. 175); «Per quel che dunque riguarda l’agire, la nuova morale ammette ogni specie di attività che sia scelta e voluta per se stessa, per un intimo impulso e una interna necessità, senza curarsi del bene e del male, di sé, e, eventualmente, anche degli altri» (p. 179).

[34]F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., pp. 28-29.

[35] F. Nietzsche, ivi, p. 26. Sulla identificazione nietzschiana di «verità» e «finzione», cfr. il libro di Walter Del Negro, Die Rolle der Fiktionen in der Erkenntnistheorie Friederich Nietzsche. cit., che è la prima ampia ricostruzione della «teoria della conoscenza» di N., fatta sulle premesse teoriche e metodologiche di Vahininger. Il che ripropone il confronto Nietzsche‑Weber, e Nietzsche e la metodologia delle filosofie neopositi­viste (la teoria del «come se»). Il che, mentre rende improponibili le mistificate letture in chiave etico‑psicologica e personalistica del pensie­ro di N. (cfr. il libro citato di R. Reininger), illumina l’attualità dell’ope­ra di N. nell’ambito della cultura scientifica e filosofica (neopositivismo ed esistenzialismo), di cui, tuttavia, vanno identificate le dimensioni sto­rico‑sociali e ideologiche. Significativo è, d’altra parte, che la «teoria della conoscenza» nietzschiana anticipa una confluenza teorica e metodologica, tra la fondazione analitico‑linguistica della logica della conoscenza e della scienza (Weber e il neopositivismo) e l’assunzione problematicistica del «senso esistenziale» come orizzonte interpretativo della conoscenza (Heidegger e l’ontologia esistenziale). Su questa confluenza, anche se di­versamente formulata ed orientata, si sofferma Ludwig Giesz nel suo libro Nietzsche. Existentialismus und Wille zur Macht, Stuttgart,1950, riconoscendo nella comune matrice antimetafisica il motivo unificante e comune al neopositivismo ed all’esistenzialismo, eredi, nella fondazione esistenziale della conoscenza e dell’azione umana, della critica nietzschia­na dei valori. Se il neopositivismo è «positivismo esistenziale», come dice Giesz, in quanto riduce la conoscenza alla verificabilità, e se è pos­sibile ridurre senza mediazioni il principio della verificazione alla «si­tuazione», resta tuttavia aperto il problema della storicizzazione della «esistenza», che passa anche attraverso l’identificazione teorica della confluenza di metodi e prospettive delle filosofie neopositivistiche ed esistenzialiste che non casualmente riscoprono oggi nel pensiero di Nietzsche una comune matrice che non è solo culturale.

[36]Se Nietzsche, più di Heidegger, comprende, vivendolo direttamente, il nichilismo della società borghese, come dissoluzione dell’uomo, nella morte e nella pazzia (Analitica e dialettica in Nietzsche, cit., pp. 112‑139, oltre il già citato Kierkegaard, Nietzsche,Heidegger), il significato del nichilismo di Nietzsche non può essere il suo «senso esistenziale» (Ana­litica e dialettica in Nietzsche,cit., p. 138), che, in quanto tale, produce una coscienza disincantata della realtà borghese, che in quanto autonomizzata rispetto alle sue condizioni oggettive, storico‑sociali, è ideologica, cioè mistificante di se stessa, nella misura in cui alla destoricizzazione della malattia e della morte corrisponde un’oggettiva disideologizzazione della coscienza, destinata a non ritrovare mai nemmeno la propria «esi­stenzialità», alla ricerca di una «ripresa» impossibile della propria realtà. La deformazione ideologica della «coscienza», in tutte le sue forme «disincantate», che esistenzialismo, psicanalisi e neopositivismo raggiungono, ha costituito l’ostacolo maggiore per una comprensione scientifica, cioè materialistica e dialettica del «caso Nietzsche», il che è alla base dell’assunzione di un metodo mistificante, in quanto ispirato allo stesso prospettivismo nietzschiano, ontologico‑esistenziale, quale ab­biamo utilizzato nei saggi già citati, per la comprensione dell’opera di Nietzsche e della storiografia su Nietzsche (cfr. Analitica e dialettica in Nietzsche, cit., pp. 8‑9, note, dove, in particolare si afferma che «proprio nell’esperienza filosofica di Nietzsche noi possiamo riconoscere il pro­cesso estremamente problematico in cui la coscienza tragica dell’uomo moderno perviene alla consapevolezza epica della nuova razionalità finita dell’esistenza su cui è possibile fondare criticamente il senso nuovo della coscienza sociale di Marx» (p. 9).

[37] F. Nietzsche, La gaia scienza, Milano, 1965, p. 174.

[38] F. Nietzsche, loc. cit.

[39] M. Cacciari, op. cit.

[40] F. Nietzsche, Umano, troppo umano, II, cit., p. 249.

[41] E. Fink, Nietzsches Philosophie, Stuttgart, 1960. Caratterizzando l’uma­nesimo di Nietzsche come «memoria» (Gedächtnis), Ernst Bertram così si esprime: «questa nobilissima forza atavica, che sollevandoci alla ‘memoria platonica’, ci lega, nel passato e nel futuro, al divino intem­porale» (Versuch einer Mythologie, cit., p. 41).

[42] Cfr. N. Bucharin, Critica dell’economia politica, Roma 1970.

[43] M. Cacciari, op. cit.., p. 183.

[44] F. Nietzsche, Umano, troppo umano II, cit., pp. 250‑251.

[45] F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., p. 174.

[46] F. Nietzsche, Aurora, Milano, 1964, pp. 152-153.

[47] T. Mann, Considerazioni di un impolitico, Bari, 1967, p. 499.

[48] Una lettura stimolante del rapporto Nietzsche‑Kierkegaard‑Dostoewsky si trova nel libro di Ralph Haper, The Seventh Solitude, Baltimore, 1965 (II ed. 1967), anche se all’individuazione di temi centrali della problematica «esistenziale», non corrisponde una adeguata problematizzazione teorica, come appare dal recupero che l’A. fa della «nostalgia dell’unità» come alternativa al «radicalismo nichilista». Più ampiamente articolata è l’analisi di Peter Heller, in Dialectics and Nihilism, The University of Massachussets Press, 1966, della continuità logica tra la dialettica antinomica di Nietzsche, l’«ambiguità» di T. Mann e la disperazione di Kafka, compresi, sul piano storico‑culturale, come momenti conclusivi della dialettica idealistica finito‑infinito (Lessing).

[49] T. Mann, Considerazioni di un im politico, cit., p. 499.

[50] T. Mann, loc. cit.

[51]T. Mann, op. cit., p. 501.

[52] Conversazioni con Foucault, Milano 1969, pp. 107‑108.

[53] M. Heidegger, Nietzsche II, cit.

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