Il socialismo impossibile di Max Weber

Nicola Massimo de Feo, 20/04/2020

Materiale datato: 01/09/1972

Ne Il socialismo impossibile di Max Weber (1972), N. M. de Feo rilegge il Manifesto di Marx ed Engels attraverso il prisma weberiano, con riferimento particolare al Der Sozialismus.

Di centrale importanza sono la perdita del carattere rivoluzionario da parte del socialismo e la conseguente acquisizione di una linea evolutiva verso un'economia burocratizzata, che sembrava eliminare la speranza della teoria progressista della necessità del comunismo. È qui che Max Weber, secondo de Feo, colse la razionalità della disciplina di fabbrica come fondamento del «socialismo moderno».

Vienna nel Dopoguerra
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N. M. de Feo, Il socialismo impossibile di Max Weber, in Problemi del socialismo, n. 9, 1972, pp. 405-419.

La necessità della razionalizzazione capitalistica dell’economia, il ruolo sempre più determinante della tecnologia nei rapporti di produzione e di esistenza dell’uomo, la crescente universalizzazione della produzione per il mercato mondiale come forma assoluta della “razionalità” economica e, nello stesso tempo, l’irriducibilità dei conflitti di classe nella “società industriale”, come forma specificatamente “razionale” del “naturale” antagonismo sociale, sono alcuni degli assiomi “idealtipici” su cui Max Weber fonda la tesi dell’impossibilità storica della rivoluzione socialista[1]. E proprio quando questa rivoluzione è diventata una realtà non soltanto nella Russia agraria, ma anche e proprio nel cuore operaio della Germania industriale e capitalista, nel 1918, la tesi weberiana dell’impossibilità del socialismo si fa più pesante e polemica, tradendo lo stato d’animo non soltanto individuale, ma di classe, che riflette la paura della rivoluzione e, nello stesso tempo, il progetto politico che persegue, la riorganizzazione del capitalismo su nuove basi sociali, attraverso l’inserimento del movimento operaio, controllato dai dirigenti riformisti della Socialdemocrazia tedesca, nell’ordine borghese, dopo la rivoluzione del ’17.

La “paura” di fronte all’incendio rivoluzionario, che nel ’18 divampa anche in Germania, nasce da una scelta di classe che è tutt’uno con la storia del pensiero weberiano: disperando ormai di trovare più un senso umano nella “razionalità” capitalistica, necessariamente antagonistica, disperando che la storia possa mai rimuovere le contraddizioni “materiali”, cioè di classe, della società borghese, Weber si chiude sempre più nella loro apologia[2]. Una mistificazione più occulta, che nasce dal carattere di classe dell’intellettuale borghese, che si esprime nel principio della neutralità della scienza sociale, riduce la lotta tra capitalismo e socialismo sulla “contrapposizione” ideologica (Auseinandersetzung) della “razionalità formale” alla “razionalità materiale”, dell’”agire” economicamente orientato all’”agire” diretto dal bisogno sociale[3]. La presunta incondizionata libertà di scelta che l’individuo sembra possedere sul piano pratico, etico-politico, o dei “valori”, contrasta, nella realtà, con la predeterminazione “naturale” dei mezzi – cioè la “scarsità” delle “risorse” -, il che riproduce, estendendola a diversi livelli, la contraddizione tra scienza e ideologia che caratterizza lo sviluppo antagonistico delle forze produttive del capitale nella sua fase di riorganizzazione.

Il “discorso” di Weber sul “socialismo”, pronunciato nel ’18 a Vienna “per un orientamento generale degli uffici austriaci”, riflette direttamente la crisi in cui si dibattono le forze sociali e politiche del movimento operaio europeo. La scissione verificatasi nel vecchio partito socialdemocratico (SDP) dopo che la sua ala destra volò al Reichstag, nel ’14, i crediti militari per la guerra imperialistica, la costituzione e le vicende mediocri del nuovo partito socialdemocratico (USPD), il sorgere del movimento spartachista, con Rosa Luxemburg e Karl Liebchneckt, lo sviluppo, particolarmente in Olanda, del movimento consiliare, confluito, in parte, in Germania nel partito comunista tedesco (KPD), la nascita del revisionismo, prima con Bernstein, poi con Kautsky, Adler, l’SPD e l’USPD, infine la rivoluzione d’ottobre, con la fondazione della Terza Internazionale, definiscono il contesto storico-politico entro cui Weber articola la distinzione fondamentale tra quelle forze politiche che si rifanno al nuovo “socialismo evoluzionista” (il “vero marxismo”, che va da Bernstein a Millerand), e quelle forze, invece, come gli inarco-sindacalisti, il movimento consiliare, i bolscevichi, gli spartachisti ecc., che perseguono ancora la “speranza rivoluzionaria” del Manifesto di Marx ed Engels.

Spiegando agli ufficiali dell’esercito austriaco il significato della parola “socialismo”, Weber non trova di meglio che definire questo termine ricorrendo al vocabolario della Kultur ufficiale dell’ideologia democratico-borghese, che identifica socialismo e democrazia. “Tutti i partiti che hanno un puro carattere socialista sono oggi partiti democratici[4], dando a “democrazia” il significato “che non esiste nessuna ineguaglianza formale dei diritti politici tra le diverse classi della popolazione”. Questo rende possibile un’interpretazione del socialismo che, pur individuandone le basi nella moderna condizione di fabbrica, ne deforma la specificazione sociale, privilegiandone da un lato le caratteristiche ideologiche ed etico-politiche (“abolizione del potere dell’uomo sull’uomo”), dall’altro le condizioni tecniche (“disciplina di fabbrica”, “organizzazione del lavoro”, “esercizio dell’impresa”). Il “socialismo” diventa, allora, una reazione morale, spontanea e necessaria, della classe operaia alla condizione di fabbrica, che è la “razionalità” capitalistica della grande industria meccanizzata, la quale tende ad estendere la “produzione industriale” a tutti i settori della “storia universale”. È l’organizzazione del processo lavorativo, “con la creazione della produzione meccanica nella fabbrica, cioè con la concentrazione e localizzazione di forza-lavoro in uno stesso spazio, col legame alle macchine e alla comune disciplina del lavoro nella sala macchine o nella miniera”[5], e non lo specifico rapporto sociale di produzione – cioè il rapporto capitalistico – che produce, secondo Weber, la specificità del “socialismo moderno”. Per questo, è la “disciplina di fabbrica” che lega l’operaio alla macchina, costringendo la forza-lavoro negli spazi e nei tempi della “produzione meccanica”, “che dà ora alla forma attuale della divisone dell’operaio dagli strumenti di lavoro il suo carattere specifico”, per cui

Da questa condizione di vita, dalla disciplina di fabbrica, è nato il socialismo moderno. La soggezione alla disciplina di fabbrica è perciò così straordinariamente sentita dall’operaio, perché la moderna impresa industriale, al contrario di una piantagione di schiavi o di una corte di servi, poggia su di un processo di selezione straordinariamente forte[6].
Ogni impresa industriale moderna, a differenza di tutte le imprese schiaviste dell’antichità, nelle quali il padrone era legato personalmente agli schiavi che possedeva – se uno di loro moriva, egli perdeva un capitale -, si basa sul principio della selezione, e questa selezione è rafforzata , d’altra parte, nel modo più straordinario, dalla reciproca concorrenza degli imprenditori, che li costringe a determinati massimi profitti: la coercitività della disciplina esprime la coercitività del salario dell’operaio. A questo infine si aggiunge ancora che, sotto il peso della concorrenza, la redditività dipende dal fatto che il massimo possibile di lavoro umano, e tanto più quello pagato con salari altissimi venga sostituito, nelle imprese con alti costi, da nuove macchine cioè operai “istruiti” da operai “non istruiti” oppure immediatamente “qualificati” sulla macchina. Questo è inevitabile e accade di continuo. Tutto questo è, infatti, ciò che il socialismo chiama “dominio delle cose sugli uomini”, che vuol dire: dominio del mezzo sul fine (cioè la soddisfazione dei bisogni)[7].

Il socialismo è allora il rifiuto della condizione di fabbrica, cioè della “grande industria meccanizzata”, per il fatto che nell’analisi weberiana i fattori tecnici e naturali della produzione – le “forze produttive” – (il “dominio delle cose sugli uomini”), acquistano un potere autonomo rispetto a quelli sociali e storici – i “rapporti di produzione” – (il “dominio dell’uomo sull’uomo”), riducendo lo sfruttamento capitalistico dell’operaio alla sua alienazione tecnologica. “Disciplina” e “selezione” sono forme organizzative del processo lavorativo troppo generiche per determinare concretamente la condizione reale della classe operaia nel processo di valorizzazione del capotale, se non vengono ricollegate, attraverso la teoria del valore-lavoro, che non a caso Weber sostituisce con quella marginalistica della “utilità”, alla legge del profitto, che Weber riconduce da un lato al meccanismo del mercato e dei prezzi, dall’altro, con la teoria marginalistica, al “rischio” ed al “calcolo” dell’”interesse” imprenditoriale. L’esigenza di superare la contrapposizione tra teoria oggettiva del valore-lavoro e teoria soggettiva dell’utilità marginale spinge Weber da un lato a ridurre il “capitale” al “calcolo” soggettivo, dall’altro, conseguentemente, a determinare la “scarsità” delle risorse sulla base della “situazione di mercato”[8]. La separazione delle forze produttive – strumenti di produzione, oggetti e mezzi di lavoro, forza-lavoro – dai rapporti sociali, che è all’origine della separazione dell’”economia”, in quanto “agire formalmente razionale”, dalla “società”, come irrazionalità del bisogno, è teoricamente fondata da Weber sulla base della concezione soggettivistica del valore che riduce la prassi ad azione, il “lavoro astratto” (Marx) all’”azione sociale fornita di senso soggettivamente razionale”. Se la teoria oggettiva del valore legittima la separazione e autonomizzazione delle forze produttive dai rapporti sociali e storici di produzione, producendo la scissione tra scienza pura e ideologia, determina, d’altro lato, la riduzione del processo produttivo agli elementi tecnico-formali della circolazione e della “situazione di mercato”, in cui il mito carismatico dell’”imprenditore”, dall’eco schumpeteriana, esprime adeguatamente l’ideologia weberiana della “razionalità formale” dell’”agire sociale”.

L’organizzazione “formale” – cioè tecnicamente razionale – del processo produttivo acquista pertanto un’autonomia assoluta nell’ambito della produzione sociale, nella quale le forze produttive appaiono come variabili indipendenti dello sviluppo. La produzione, allora, appare ancora una volta – così come negli economisti borghesi – come il rapporto uomo-natura che si pone al di fuori di determinati rapporti sociali: ciò che per gli economisti classici era tuttavia una relazione di “appropriazione”, che si specificava al livello della produzione[9], diventa in Max Weber un rapporto di “acquisizione”, secondo la prevalente determinazione che la teoria soggettiva del valore riconosce alla “situazione di mercato”, risolvendosi nell’indeterminazione dell’”agire formalmente razionale”[10], in cui la “natura” si identifica con le “risorse”. La relazione espressa nell’”uso razionale” delle “risorse” oggettivamente “scarse”, che è il senso stesso della categoria marginalistica e weberiana di “scarsità”, non è, in realtà, che la rappresentazione, deformata dall’ideologia borghese della “razionalità formale”, dell’appropriazione capitalistica, o valorizzazione. Nella nozione di “scarsità”, che fa da supporto alla concezione weberiana della scienza e della tecnica, il rapporto di produzione capitalistico è travestito nella forma della “razionalità formale” delle forze produttive – cioè le “risorse” già date nella “situazione di mercato” -. Il capitale, ridotto a strumento di produzione, diventa oggetto del calcolo imprenditoriale e la condizione specifica della produzione di plusvalore, la divisione dell’operaio dagli strumenti della produzione, diventa la condizione necessaria che la “tecnica attuale” impone non soltanto all’”agire economicamente razionale”, ma anche ad ogni forma di attività sociale che pretenda essere “razionale”, fondata, cioè, sul calcolo delle risorse.

In particolare però, è questa inevitabile universale burocratizzazione ciò che si nasconde dietro uno degli slogan più frequentemente ripetuti – lo slogan della “divisione del lavoratore dallo strumento di lavoro”. Che cosa vuol dire questo? Il lavoratore – ci viene detto – è “diviso” dagli strumenti materiali con cui produce, e su questa divisone poggia la schiavitù del salario in cui si trova […][11];
M. Weber, Der Sozialismus (1918)
questo è vero, ma non è soltanto proprio del processo di produzione economica. È la stessa cosa che, per esempio, noi viviamo anche nell’Università. Il vecchio docente e professore universitario lavoravano con le biblioteche e gli strumenti tecnici che essi stessi si creavano e si facevano fare, e in questo modo, per esempio, il chimico produceva quelle cose che erano necessarie all’attività scientifica. La massa dell’attuale forza-lavoro nell’ambito della moderna attività universitaria, in particolare gli assistenti dei grandi istituti, si trova da questo punto di vista proprio nella stessa condizione di qualsiasi operaio. Possono essere sempre licenziati. Nell’ambito dell’istituto non hanno altro diritto che quello dell’operaio nella fabbrica. Così come in questa, essi debbono agire secondo il regolamento esistente. Non hanno la proprietà di nessun oggetto, o apparecchio, macchina, ecc., che sono usati in un istituto di chimica o di fisica, di anatomia e o di clinica; queste sono piuttosto proprietà dello Stato, ma vengono amministrate dal direttore dell’istituto che perciò le prende in consegna, mentre l’assistente riceve un reddito che non è misurato in modo essenzialmente diverso da quello di un operaio qualificato. La stessa cosa troviamo nell’ambito dell’organizzazione militare. Il cavaliere dell’antichità era proprietario del proprio cavallo e del proprio equipaggiamento […]. Il militare moderno è nato in margine al ménage principesco, quando cioè il soldato e l’ufficiale (che è già qualcosa di diverso, ma che in questo senso è simile in questo all’impiegato) non erano più proprietari degli strumenti dell’attività bellica[12].

Dal momento che la “divisione del lavoratore dagli strumenti di produzione”, in quanto condizione dell’organizzazione razionale dell’”agire sociale”, non caratterizza soltanto la produzione, ma anche ogni sfera dell’attività sociale sottoposta al controllo della scienza e della tecnica,

è un grave errore, dice Weber, considerare questa divisione dell’operaio dagli strumenti d’impresa come qualcosa solo dell’economia e addirittura come caratteristica specifica dell’economia privata. Nella sua fattispecie, non cambia affatto, se cambia la persona di chi domina quell’apparato, se a disporre di esso è un presidente statale o ministro di un produttore privato. La “divisione” dai mezzi d’impresa ha in ogni caso una portata più ampia. Finché ci sono miniere, fattorie, ferrovie, fabbriche e macchine, esse non potranno essere mai, in questo senso, proprietà di un singolo o di più operai, così come gli strumenti d’impresa di un mestiere erano nel Medioevo proprietà di un maestro di corporazione oppure di una locale società di lavoro o di una corporazione artigiana. Lo esclude la natura della tecnica attuale[13].

“Disciplina” e “selezione”, allora, specificano al livello di fabbrica la condizione generale tipica della “razionalità formale” dell’”agire sociale”, cioè la “divisone del lavoratore dagli strumenti di lavoro”, per cui, secondo Weber, non da questa “divisione”, bensì “dalla disciplina di fabbrica, è nato il socialismo moderno. In generale, in ogni epoca e in tutti i paesi della terra, il socialismo si è dato forme diverse. Il socialismo moderno nella sua specificità è possibile solo su questa base”. Questa definizione, nonostante, anzi proprio per l’empirismo sociologico che riflette, esprime tutta la deformazione dell’analisi delle forze produttive che il pensiero di Weber introduce nella scienza sociale. Il feticismo della scienza e della tecnica, prodotto dalla separazione e autonomizzazione delle forze produttive dai rapporti di produzione, rende possibile, infatti, questa comprensione ideologica del “socialismo”, come specifico fenomeno di reazione morale della coscienza operaia alla necessità “razionale” del capitale, che Weber, seguendo Bernstein, ritrova propriamente nel pensiero di Marx e di Engels: non è per caso che buona parte del “discorso” weberiano è dedicata alla confutazione, condotta essenzialmente con argomentazioni bernsteiniane, del documento classico del socialismo “vero”, cioè quello rivoluzionario, il Manifesto di Marx ed Engels, definito “profezia morale”, oggettivamente superato dalla “società industriale” e dalla “tecnica attuale”:

esso profetizza il tramonto dell’economia privata, si dovrebbe dire dell’organizzazione capitalistica della società e, nello stesso tempo, la trasformazione di questa società – in quanto stadio di transizione – per mezzo della dittatura del proletariato. In questa situazione di transizione sta quindi l’autentica speranza del crollo: il proletariato non può liberarsi da se stesso dalla schiavitù, senza porre fine a tutto il potere dell’uomo sull’uomo. Questa è l’autentica profezia, il nucleo del Manifesto, senza del quale non si scriverebbe mai: “il proletariato, la massa degli operai si impadronirà innanzitutto del potere politico sotto la sua guida. Ma questa è un’epoca di transizione, che condurrà ad una associazione di individui”, che è dunque lo stato finale[14].

Facendo propria, sviluppandola, la tesi di Eduard Bernstein, il quale ha voluto vedere nel Manifesto di Marx ed Engels la prima teorizzazione del “crollo” dell’ordine capitalistico, come “legge naturale” di sviluppo della società borghese[15], Weber descrive le presunte, rigorose “leggi naturali” dell’inevitabile “tramonto della società presente”. La principale di esse, quella dell’”impoverimento assoluto”, a cui il capitale costringe il proletario, “è oggi, in questa forma, esplicitamente e senza eccezione rigettata come errata da tutti i gruppi della socialdemocrazia”, per il fatto che “è iniziato lo sviluppo di una via diversa per il socialismo”, legata al nome di Karl Kautsky[16].

La seconda “legge naturale” è la “proletarizzazione”, legata all’accumulazione, concentrazione e centralizzazione del capitale. Anche a questa legge, descritta in termini approssimativi e meccanici[17], Weber contrappone le classiche controargomentazioni bernsteiniane, quelle della necessaria terziarizzazione della classe operaia, dell’incremento dei ceti medi e della piccola proprietà, perché

il semplice decrescere degli imprenditori non esaurisce tutto il processo. L’eliminazione del piccolo capitale avviene nella forma della sua integrazione con capitale finanziario, organizzazione di cartelli e trusts. Fenomeno concomitante a questo processo molto diffuso, è innanzitutto il rapido incremento di “impiegati”, cioè della burocrazia economico-privata – statisticamente essa cresce molto più celermente degli operai – i cui interessi non coincidono assolutamente in maniera diretta con quelli di una dittatura proletaria,

per cui

il costituirsi di un’unità tra i più molteplici interessi è tanto complesso, che non si può affermare in modo assoluto, ora che il numero e il potere di coloro che direttamente e indirettamente sono interessati all’ordine borghese sia in diminuzione. In ogni caso, per intanto, le cose non stanno così che si possa essere sicuri in maniera determinata che ad una mezza dozzina o ad un paio di centinaia o migliaia di magnati del capitale isolati si contrapporranno milioni e milioni di proletari[18].

Infine, la terza “legge” è la teoria della “crisi”, ridotta ad effetto dall’”anarchia” del mercato capitalistico nella sua fase concorrenziale, come alternanza ciclica di sovrapproduzione:

Poiché gli imprenditori sono in concorrenza reciproca – dice Weber -, è inevitabile, allora, che si succedano sempre di nuovo periodi di sovrapproduzione, che si risolvono in bancherotte, crolli e nelle cosiddette “depressioni”[19].

Se anche qui Weber segue Bernstein nel privilegiare il mercato e il movimento della circolazione e dello scambio, rispetto alla produzione del capitale (plusvalore), spiegando la crisi in termini di “realizzazione” e non di “accumulazione”, egli appare più illuminato di Bernstein nel riconoscere la realtà storica delle crisi e, anticipando Keynes, nel rigettare il dogma borghese della “legge di Say”[20]:

Questi periodi – ciò che Marx ha solo accennato nel Manifesto comunista, più tardi, però, è diventato una teoria definita – si susseguono con rigorosa periodicità secondo leggi. In effetti, per quasi tutto un secolo c’è stata una periodicità approssimativa in tali crisi. Da dove ciò deriva, gli stessi principali studiosi della nostra scienza non sono ancora della stessa opinione, per cui sarebbe del tutto fuori luogo discuterlo ora[21].

Non la scienza economica, ma la politica economica, attraverso gli strumenti del credito, della finanza pubblica, attraverso il dominio del mercato (monopoli, cartelli, trusts), riesce a controllare adeguatamente questi turbamenti della “razionalità economica”, su cui è cresciuto il socialismo.

Su queste crisi il socialismo classico costruì così la sua speranza. Prima di tutto per questo, perché queste crisi naturali diventano sempre più forti per intensità e distruttività rivoluzionaria, si accumulano e si estendono, producendo prima o poi una situazione tale, che rende più possibile conservare quest’ordine economico proprio da parte degli stessi ambienti proletari. Questa speranza è oggi nell’essenziale abbandonata. Infatti, il pericolo di crisi non è certo diminuito, è diminuito però il suo significato relativo, da quando gli imprenditori sono passati dalla concorrenza assoluta alla cartellizzazione, da quando, cioè, essi hanno deciso di eliminare progressivamente la concorrenza con la regolamentazione dei prezzi e del mercato e da quando poi le grandi banche, ed anche la Banca Tedesca del Reich si sono decise a provvedere che, con la regolamentazione della concessione dei crediti, anche i periodi di super speculazione fossero diminuiti di molto. Dunque, anche questa terza speranza del Manifesto comunista e dei suoi seguaci non si può dire che “non si sia verificata”, ma certo è abbastanza fortemente mutata nei suoi presupposti[22].

La capacità del capitale di autoregolare il mercato, eliminando la concorrenza, controllando i prezzi, utilizzando il credito, se può controllare la circolazione e le crisi economiche, riesce anche, secondo Weber, ad eliminare la motivazione più decisiva su cui si è retta la “profezia morale” del Manifesto, aprendo la strada a quella “diversa via per il socialismo” che è il “revisionismo”:

Le molto poetiche speranze che il Manifesto Comunista aveva riposto in un crollo della società borghese sono state perciò rimpiazzate da attese molto più positive. Ad esse appartiene in primo luogo la teoria che il socialismo si pone sulla via della rivoluzione in modo del tutto spontaneo, perché la produzione economica si “socializza” progressivamente[23].

Questa “via diversa” passa attraverso il capitalismo azionario,

anche se si deve aggiungere che dietro le società per azioni molto spesso si nascondono uno o più magnati della finanza, i quali dominano l’assemblea generale: ogni possessore di azioni sa che, poco prima dell’assemblea generale, egli riceve una lettera dalla sua banca, con la quale lo si prega di cedere il diritto di voto di questa sua azione[24].

In questa forma di socialismo azionario giustamente Weber coglie la forma più razionale di socializzazione della “razionalità” capitalistica, caratterizzata dalla divisione tra la gestione imprenditoriale dell’impresa – la “burocrazia” -, e la sua proprietà azionaria – la “rendita” -, che sono

Gruppi, cioè, che ricevono solo dividendi e interessi, che, diversamente dagli imprenditori, non fanno nessun lavoro, ma che, con tutti i propri interessi di reddito, sono inseriti nell’ordine capitalistico[25].

Ed è proprio al “revisionismo”, in quanto forma razionalmente socializzata del modo di produzione capitalistico, che Weber attribuisce lo slogan della “dittatura degli impiegati”:

Nelle imprese pubbliche e societarie domina principalmente ed esclusivamente l’impiegato, non l’operaio, che difficilmente in esse ottiene qualcosa con lo sciopero, così come nell’impresa privata. La dittatura dell’impiegato, non dell’operaio, è ciò che – per ora in ogni caso – vediamo in fase di formazione[26].

Mentre il “socialismo rivoluzionario” è così liquidato come fenomeno essenzialmente morale e ideologico, sulle premesse del “vero” socialismo scientifico, che ha sostituito l’idea di “rivoluzione” con quella di “evoluzione” dell’ordine capitalistico, il “socialismo evoluzionista”, caratterizzato dal ruolo prevalente dello Stato nell’attività economica, dalle cooperative di consumo, dalla partecipazione degli operai all’amministrazione delle imprese, è presentato da un lato come fase necessaria dello sviluppo sociale del capitale, dall’altro come fenomeno specifico della razionalizzazione tecnologica del processo produttivo e dell’”azione sociale” come tale, cioè della “burocratizzazione” di ogni rapporto sociale: nell’una e nell’altra forma, il socialismo è recuperato alla “razionalità” del capitale:

Comunque sia, però, questi argomenti dimostrano già, in ogni caso, che la vecchia speranza rivoluzionaria in una catastrofe, che diede al Manifesto comunista la sua forza di seduzione, è diventata una concezione evoluzionistica, una concezione, cioè, che poggia sulla trasformazione graduale della vecchia economia, con le sue numerose imprese in concorrenza, in una economia regolata da funzionari statali o da cartelli, sotto il controllo dei funzionari. Questa, e non più la distruzione delle singole imprese a causa della concorrenza e della crisi, appare ora il primo gradino dell’autentica società socialista. Questo atteggiamento evoluzionista, che attende lo sviluppo della futura società socialista da questa graduale formazione, prima della guerra era effettivamente un’idea che si trovava nei sindacati ed anche in molti intellettuali socialisti, al posto della vecchia teoria del crollo. Ne sono state tratte le note conseguenze. Sorse il cosiddetto “revisionismo”. I suoi capi sono diventati coscienti, almeno in parte, di quanto grave sia quel passo, di sottrarre alle masse quella fede in una futura felicità che irrompa improvvisamente, e che a loro era stata data da un Vangelo, che, al pari del vecchio Cristo, diceva loro: questa notte potrà ancora giungere il sacro. Si può ben rigettare una coscienza fideistica quale era il Manifesto comunista e la più tarda teoria del crollo, ma allora è difficile poterla sostituire con un’altra. Intanto, la lotta scaturita fra la coscienza critica e la fede nella vecchia ortodossia non ha avuto più ulteriore sviluppo. Essa si complicò con la questione se e in che misura la socialdemocrazia, come partito di “politica pratica” doveva cercare di partecipare a coalizioni con partiti borghesi, per partecipare responsabilmente alla direzione politica assumendo posizioni ministeriali, cercando così di migliorare le attuali condizioni di vita degli operai – oppure, se questo era un “tradimento alla classe” o un’eresia politica, come necessariamente doveva pensare un politico convinto della teoria della catastrofe. Ma intanto sono sorti altri importanti problemi a cui gli spiriti si aprono. Ammettiamo per ipotesi che nell’ambito di una evoluzione graduale, cioè della generale cartellizzazione, standardizzazione e burocratizzazione, l’economia si sviluppi in modo che prima o poi ci siano le possibilità tecniche che, al posto dell’attuale economia privata, cioè della proprietà privata dei mezzi di produzione, possa sorgere una regolamentazione completa delle imprese. Chi sarebbe, allora, a prendere nelle mani e a dirigere questa nuova economia? Su questo il Manifesto comunista non dice nulla o si è espresso in modo abbastanza ambiguo [27].

Anche da questo giudizio, che riflette la scissione naturalistica tra le forze produttive che rendono possibile la socializzazione della produzione e i rapporti sociali nuovi che dovrebbero gestire il nuovo ordinamento economico, appare ancora più chiaramente quanto l’analisi weberiana sia profondamente influenzata dal “marxismo vero” o “scientifico” della Seconda Internazionale, di Bernstein, di Kautsky e di Adler. Derivano da Bernstein, come abbiamo indicato, l’interpretazione della teoria socialista del crollo, dell’impoverimento e della proletarizzazione, la definizione della natura tecnologica delle forze produttive e il concetto, ad essa legato, della “neutralità” della scienza e della tecnica con la riduzione del “socialismo” a fenomeno ideologico, prodotto, cioè, dalla coscienza. Facendo proprie le principali tesi sociologiche e politiche del “revisionismo”, in cui egli scorge il primo grandioso evento di radicalizzazione scientifica del socialismo, Weber porta all’estrema conclusione il processo di borghesizzazione del marxismo secondointernazionalista, ritraducendo nella forma specifica dell’ideologia borghese quegli elementi teorici che il pensiero borghese avevo introdotto, attraverso Bernstein, nel movimento operaio. La dimostrazione dell’eternitàdei rapporti di produzione capitalistici è qui mediata non solo dalla riaffermata fiducia nella capacità assoluta del capitalismo di superare le proprie contraddizioni “materiali” – ridotte a crisi del mercato -, ma anche, nello stesso tempo, dalla riduzione del socialismo a ideale morale. Nato storicamente come reazione alla “disciplina di fabbrica”, il socialismo diventa la “speranza” in una condizione ideale nella quale, con l’abolizione della divisione dell’operaio dagli strumenti di lavoro (il “dominio delle cose sull’uomo”), che fa tutt’uno con la distruzione della tecnica e della scienza, venga meno anche il “dominio dell’uomo sull’uomo”. Muovendo dal presupposto della razionalità intrinseca dei rapporti di produzione capitalistici e delle “leggi” del capitale – il profitto, il salario, la rendita, la proprietà privata dei mezzi di produzione, ecc. – pur riconoscendo il carattere di classe della “protesta” socialista, Weber vede nel “socialismo” solo una “protesta”, che egli spiega come prodotto delle necessarie contraddizioni soggettive che l’organizzazione “formalmente razionale” dell’”attività economica”, indipendentemente dal sistema sociale in cui si incarna, produce. È lo sviluppo tecnologico, con la meccanizzazione, frantumazione e manipolazione del processo lavorativo e della forza-lavoro, che rende necessaria e, nello stesso tempo, impotente, la “speranza socialista”, condannando il socialismo ad essere “speranza”. Il “fine” del socialismo, dice Weber, è l’abolizione del “dominio delle cose sull’uomo”, come forma specificamente razionale e tecnica del “dominio dell’uomo sull’uomo”, cioè la liberazione della classe operaia dall’”alienazione tecnologica”, che è, appunto, il “crollo” della “società industriale”. L’utopismo di questa “profezia”, dice Weber, è la protesta morale di intellettuali romantici che, utilizzando la “naturale” reazione della classe operaia alla condizione di fabbrica, la spinge all’avventura rivoluzionaria. La critica marxista dell’alienazione del lavoro capitalistico, come prodotto dell’uso capitalistico della forza-lavoro, è allora una utopia romantica, che pretende di rimuovere la condizione fondamentale della “razionalità economica”, cioè quella “divisione” dell’operaio dagli strumenti della produzione che è la moderna condizione “tecnica” della razionalità non solo del processo produttivo in quanto tale, ma anche dell’”azione sociale” fornita di “senso”. La confluenza, nel pensiero di Weber, della scienza sociale borghese e del revisionismo moderno è il riflesso di complessi processi storici, sociali e politici propri dell’età dell’imperialismo, quando il capitale monopolistico rinnova fondamentalmente i suoi meccanismi di riproduzione ed accumulazione, cercando nuove basi sociali alla formazione del plusvalore relativo, modificando la composizione organica del capitale al fine di una “diretta” e “immediata” utilizzazione della scienza e della tecnica come forze produttive[28]. Weber, che appare ancora oggi tra gli ideologi più illuminati del capitale in questa specifica fase storica, essendo passato attraverso la crisi irrazionalistica del liberismo moderno, esprime l’esigenza di rinnovare la teoria e la prassi del capitale monopolistico. In questo senso, anticipando Keynes[29], egli comprende il ruolo specifico e determinante del movimento operaio attraverso il “dogma marxista dell’evoluzione”, non perché ne accetti la teoria, ma perché ne intende l’utilità sociale e politica. “Non esiste nessun mezzo per far scomparire dal mondo l’ideologia socialista e la speranza nel socialismo. La classe operaia sarà sempre di nuovo in qualche modo socialista”, dice Weber a conclusione del suo “discorso”: la necessità di questo “socialismo impossibile”, tuttavia, può essere utilizzata contro la rivoluzione socialista, nella misura in cui sopravvive la Kultur, cioè la scienza borghese, che è per Weber il fondamento discriminante della “razionalità” dei sistemi sociali.


[1] M. Weber, Der Sozialismus, in Gesammelte Aufsätze zur Soziologie und Sozialpolitik, Tübingen, 1924, pp. 492-518; Economia e società, Ed. di Comunità, Milano, 1961, vol. I, pp. 75-136.

[2] Cfr. il nostro saggio Weber e Lukács, De Donato, Bari, 1971.

[3] M. Weber, Economia e società, cit.

[4] M. Weber, Der Sozialismus, cit., p.494.

[5] Ivi, p. 501

[6] Ibidem.

[7] Ivi, p. 502.

[8] M. Weber, Economia e società, cit.

[9] Cfr. J. Stuart Mill, Principi di economia politica, Einaudi, Torino, 1962, pp. 22-23, 27-32 e sagg., e le osservazioni critiche di Marx in Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, vol. I, 1968, pp. 8-11 (Introduzione); O. Lange, Economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1970.

[10] M. Weber, Economia e società, cit.

[11] M. Weber, Der Sozialismus, cit., p. 498.

[12] Ivi, pp. 498-499.

[13] Ivi, p. 499 (il corsivo è nostro).

[14] Ivi, p. 505.

[15] E. Bernstein, I principi del socialismo e i presupposti della socialdemocrazia, Laterza, Bari, 1968: “[…] fautori di questa teoria catastrofica si appoggiano sostanzialmente sulle affermazioni del Manifesto comunista. A torto, sotto ogni riguardo.” (Prefazione alla prima edizione, p. 4); cfr. l’introduzione di Lucio Colletti.

[16] M. Weber, Der Sozialismus, cit., p. 506.

[17] “Veniamo così al secondo argomento: la concorrenza reciproca degli imprenditori significa la vittoria di chi ha più capitale e migliori capacità mercantili, innanzitutto di chi possiede capitali più grandi. Questo significa che diventa sempre più piccolo il numero degli imprenditori, mentre aumenta, in termini relativi ed assoluti, il numero del proletariato. Prima o poi però, il numero di questi imprenditori si sarà così ridotto, che diverrà impossibile conservare bene il proprio potere, per cui questi “espropriatori”, forse del tutto pacificamente e in tutta cortesia – diciamo noi: senza dolore – possono essere espropriati, quando vedranno che il terreno sarà diventato così scottante sotto i loro piedi, da farli diventare sempre meno numerosi, in modo da non poter conservare più il proprio potere” (ivi, pp. 506-507).

[18] Ivi, p. 507.

[19] Ibidem.

[20] Cfr. P. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, Boringhieri, Torino, 1970, pp. 161-163.

[21] M. Weber, Der Sozialismus, cit., p. 507.

[22] Ivi, pp. 507-508.

[23] Ivi, p. 508.

[24] Ibidem.

[25] Ibidem.

[26] Ibidem

[27] Ivi, pp. 510-511.

[28] K.Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’ economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1970, II, pp. 395-405.

[29] Cfr. A. Negri, La teoria capitalistica dello Stato nel ’29: John M. Keynes, in “Contropiano”, n. 1, 1968, pp. 3-40.