Sulla 'questione morale': «violenza per il corpo e menzogna per lo spirito»

Nicola Massimo de Feo, 01/02/2021

Materiale datato: 01/01/1989

Questo articolo, comparso sulla rivista barese «Escamotage» nel 1989, riprende eloquentemente la formulazione del pensiero di Sergej Nečaev, rivoluzionario russo del XIX secolo, espressa da M. Bakunin (cfr. M. Bakunin, Gewalt für den Körper. Verrat für die Seele. Berlin 1980). Al cuore del ragionamento di de Feo, ritroviamo la questione delle politiche d'emergenza, che dalla fine degli anni Ottanta si sono fatte sempre più strada nelle pratiche governamentali. Analizzando questo problema foucaultiano, il professore barlettano adoperò però gli strumenti del suo «nietzscheanesimo senza riserve», leggendo nel governo della precarizzazione una nuova determinazione storica della sussunzione, dunque dello sfruttamento. In anticipo sui tempi, mostrò quanto oggi stiamo sperimentando: da un lato, la centralità della «vita» nei processi di soggettivazione e di valorizzazione della forza lavoro; dall'altro, per dirla con Paul Nizan, la guerra contro la «vita» intesa come desideri, valori, capacità e potenza che sfuggono al capitale come rapporto sociale.

Da La Haine (1995)
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N. M. de Feo, Sulla 'questione morale': «violenza per il corpo e menzogna per lo spirito», in «Escamotage», n. 6-7, 1989, pp. 31-34.

É merito dei reazionari, ancora una volta, delineare e provocare nuovi percorsi alle lotte dei proletari, consapevolmente e inconsapevolmente, nel gioco macabro di repressione, controtendenze e regressioni: meccanismo elementare, diremmo classico, della lotta di classe già da tempo attiva e diffusa sul terreno della riproduzione sociale, del corpo, dei bisogni e desideri, e che oggi ritrova una non imprevista ma significativa attualità nello scontro sociale sulla repressione «aggiuntiva» prodotta dalle politiche proibizioniste dello stato post‑keynesiano e post‑fordista. Che, nel nostro paese, sono gran parte di una nuova fase della tattica di «stati emergenziali», contro il terrorismo, l’inflazione, la droga ecc., con cui lo stato dei partiti impone a tutta la società, con le manipolazioni e le illusioni di una democrazia corporativa e neo‑clientelare, scadenze e priorità di riorganizzazione politica del comando capitalistico, dell’impresa, dello stato, delle istituzioni totali, attaccando, direttamente e indirettamente, le condizioni di vita e di lavoro dei proletari, nella produzione e nel consumo. E questo, nel nostro presente storico, quando lo sviluppo capitalistico delle forze produttive e dei rapporti di produzione, di potere, di consumo, assume un carattere inevitabilmente distruttivo e sovversivo (l’automazione e la disoccupazione di massa, il complesso militare‑industriale, l’informatica e l‘olocausto nucleare, le comunicazioni di massa, la guerriglia urbana e il terrorismo internazionale). Non per fantasmi di facili meccanismi di crollo, né per improbabili istinti di morte, ma per il «naturale» antagonismo della formazione sociale, attraversata da rapida ed intensa diffusione, a tutta la rete dei rapporti e delle attività sociali, della condizione operaia e della sua conflittualità. Che, nell’originale mescolanza, vecchia e nuova, di scaltrezza mercantile e di servile imitazione propria del capitalismo italiano, ha generato e genera, nel nostro paese, un’aggressività feroce contro natura e società insieme, ridotte a pattumiera di scarichi e scorie da esportare in tutto il mondo o a riserva di lavoro nero da importare per il godimento di grossi e piccoli padroni trafficanti di armi e droga, ma che possiede, tra l’altro, anche il potere di provocare rabbia e rivolta nelle popolazioni. Particolarmente nel Sud, dove il nesso generale di sviluppo e barbarie della formazione sociale capitalistica dei nostri giorni, esplicita tutta la sua violenza nella criminalità dilagante che avvolge in modo sanguinario la rete dominante dei poteri di governo delle mafie, dello stato, dei partiti.

Salvare, conservare e nutrire questo sistema è stato ed è il risultato delle politiche emergenziali indicate, l’ultima delle quali, la criminalizzazione del consumo di droga, ripropone la domanda che in questi anni si è ripetutamente affacciata: se questo sviluppo distruttivo sia in grado, ancora, di produrre lotte e capacità di mobilitazione sociale, su valori e contenuti di vita alternativi, su cui ricomporre e riqualificare lo sviluppo, secondo l’ipotesi dei nuovi movimenti sociali (ecologisti, pacifisti e nuovi riformisti) o se, così come noi riteniamo, nuove lotte e nuovi movimenti si danno solo contro questo sistema dello sviluppo e dentro la sua distruttività.

Il Sud, come anello più forte della catena del sistema, dove si riproduce il cumulo di sfruttamento, dominio e repressione aggiuntivi rispetto allo speciale costitutivo stato di disgregazione che lo accompagna, domina la complessità multinazionale dell’antagonismo di classe, tra barbarie imperialista e guerra civile proletaria, condizionando, dalla periferia, caratteri e tendenze dei movimenti di classe centrali del sistema. In particolare, nel nostro paese, la vecchia e nuova centralità del mezzogiorno ripropone e moltiplica gli antagonismi accumulantisi dentro e tra le facce diverse e spesso contrastanti di cicli di lotte, ristrutturazioni e crisi, dentro cui vanno analizzati e spiegati imbarbarimenti e sclerosi irreversibili della lotta sociale e politica, criminalizzazione crescente dei rapporti di produzione, di consumo e di vita dell’economia capitalistica nazionale, sempre più dominata dal ciclo politico‑finanziario della produzione e del traffico di armi e di droga, degenerazione autoritaria, burocratica e corporativa di partito dello stato di diritto, soffocato tra «stati d’emergenza» e «leggi eccezionali». Che sono le strutture reali dell’unità capitalistica e statale di nord e sud, in cui mafia e camorra, armi e droga non sono limiti, ostacoli, degenerazioni, avversari dell’impresa, del mercato, dei partiti, delle banche che, in questi anni di orgia sfrenata di profitti e speculazioni, di assalti e spartizione di ricchezza sociale, di espropriazione e supersfruttamento delle masse lavoratrici, di corruzione e distruzione del potere di opposizione, di critica e di lotta autonome delle masse, hanno imposto a tutta la società la libertà del proprio potere di sfruttare, di vendere, di comprare e di dominare, – sono elementi costitutivi e inseparabili della realtà sociale, politica ed economica della cosiddetta rinascita dell’istinto capitalista degli anni ottanta. La sua cultura, il diritto di saccheggio della natura, della società e dell’uomo, attraverso l’uso spregiudicato del progresso scientifico e delle nuove tecnologie dello sfruttamento intensivo e della manipolazione, ha fatto delle politiche delle emergenze lo strumento operativo di esecuzione autoritaria, al di fuori del garantismo dello stato di diritto e della democrazia formale, trovando nei mass‑media l’armamentario manipolatorio più adeguato per affermarsi come conformismo di massa.

La condizione di questo processo, la sconfitta, l’isolamento e l’annientamento e/o la manipolazione delle lotte operaie e dei movimenti di massa autonomi, diventa il suo fine e la sua strategia regressiva, quanto più gli effetti distruttivi delle politiche della crisi costringono classi e poteri dominanti a subire gli effetti destabilizzanti, di scollamento democratico del tessuto sociale e di imbarbarimento dei rapporti sociali e delle politiche che essi stessi promuovono, costretti a seguire sino in fondo la logica perversa della controtendenza: dalla repressione alla repressione, dalla crisi alla crisi, alla ricerca di una impossibile governabilità.

In questo quadro, va sottolineata la crescente centralità acquisita dalla cosiddetta e diversamente intesa «questione morale», come recupero dell’esigenza di affidare alla «norma» la capacità e il potere di controllo e di disciplinamento sociali che le politiche di crisi non riescono a legittimare, incapaci come sono di riformare, migliorando, o ripulendo almeno, la cultura di rapina della razionalità capitalistica. Sia che la norma sia ricondotta a rilanciare l’ideologia del lavoro e della qualificazione da parte del complesso militare‑industriale (vedi l’istituzione di un «premio» ad hoc da parte della Fondazione Agnelli), sia che la si riconduca, nella chiesa integralista della restaurazione cattolica, alla vecchia funzione di repressione sessuale o a quella nuova, ma non tanto, di guardiana bioetica della scienza, sia che la pur avvertita consapevolezza della sua dimensione critica sociale e politica si chiuda nell’impotenza gramsciana della riforma morale e intellettuale. In particolare, i recenti pronunciamenti, da parte di ben individuati settori di classi, di partiti e di poteri dominanti, in occasione di recenti interventi contro l’AIDS e la droga, per un programma di igiene sociale autoritaria, che punti direttamente ad affidare all’azione penale statale l’intervento risanatore di comportamenti sociali e di consumi ritenuti patologici e intrinsecamente criminali – l’ultima formulazione dell’ impotenza politica delle «emergenze» a garantire il controllo sociale –, fanno esplicitamente appello alla normalizzazione morale di una società che rifiuta, evidentemente, e ancora, di conformarsi a qualsivoglia regola di comando, vecchia o nuova, che garantisca stabilità e governabilità. Il moralismo non è più neanche una maschera della menzogna e della violenza di potere di simile programma, che torna a usare le vecchie categorie di «norma» e di «normalità» per risanare una società, che il sistema attuale ha gettato nella malattia, ammodernando famiglia, chiesa, partiti, carceri, manicomi, asili, per le nuove funzioni del controllo sociale. Che aspira a trattare con gli strumenti delle istituzioni totali la qualità soggettiva, morale, personale e interpersonale dell’individuo sociale, il complesso delle motivazioni, dei bisogni e dei desideri espressi nella capacità di consumare e di godere. Attaccando direttamente, individualmente, con la riprovazione e la condanna morale, oltre che con la proibizione e la persecuzione penale, l’autonomia del corpo e i processi di liberazione sociale, sessuale ecc. che rifiutino di adeguarsi a qualsiasi valore o misura fissata dal potere ed imposta come norma. Che, nelle condizioni attuali di dominio della cultura di rapina del capitalismo delle selvagge ristrutturazioni di mercato, vuol dire dipendenza e disarmo assoluti dell’individuo sociale rispetto alle compatibilità stabilite dal potere, statale e privato, nella produzione e nel consumo.

La criminalizzazione dei comportamenti sociali ritenuti incompatibili con la normalità e la sanità del lavoro salariato, ordinato, disciplinato, subalterno, regolato dal profitto, dal denaro, utilitaristico; il trattamento coercitivo degli individui ritenuti malati, spostati, disadattati; la repressione della ribellione e del rifiuto ecc. diventano insieme valori morali e leggi statali quando, a partire dall’attuale disegno di legge governativo sulla proibizione del consumo di droga, si dà al comando della norma dell’astinenza la sanzione giuridica del potere statale. Restaurando un vecchio potere dello «stato etico», quello d’intervento sulla coscienza e i bisogni dell’individuo per dirigere l’economia politica del corpo, i suoi poteri di vita, di scelta e di godimento, affidandoli alle cure del poliziotto o dell’assistente sociale. «Violenza per il corpo e menzogna per lo spirito», la formula politica di Sergej Nečaev, riassume bene i caratteri di questa operazione in corso: proclamando l’ennesima emergenza contro l’impazzimento sociale, l’abbrutimento e la narcosi che il regime della deregulation capitalistica produce, lo stato capitalista tenta di ricostruire una identità di normalità, compatibilità e regolabilità dei comportamenti sociali, ponendo sotto il controllo di una morale di stato i flussi di bisogni, consumi e desideri del corpo, i più sensibili alla brutalizzazione del consumismo di mercato del capitale e, contemporaneamente, al rifiuto della norma, del controllo e della misura. Un tentativo disperato di cancellare con la brutalità della violenza e della mistificazione di stato le escrescenze patologiche della rinnovata anarchia capitalistica, della sua orgia distruttiva di qualsiasi norma e regola che non sia quella, ad essa connaturata, di sfruttamento e di dominio del corpo umano. Una contraddizione che è diventata un laccio: terrore, follia, droga, corruzione, morte, queste ed altre schegge impazzite dell’attuale sviluppo distruttivo, su cui si elevano nuove carceri, nuovi manicomi, nuovi reclusori, sono anche, nello stesso tempo, pezzi di storia umana reale, oppressa e sfruttata, grumi e macchie, discontinui ma diffusi, di lotte disperate ma aperte, dove, tuttavia, la distruttività può essere anche liberazione.

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