Nicola Massimo de Feo e la rivoluzione degli idioti

Andrea Russo, Marcello Tarì, 11/03/2024

Materiale datato: 31/12/2022

Pubblichiamo sul nostro sito questo contributo di Andrea Russo e Marcello Tarì, comparso per la prima volta nella terza parte del dodicesimo volume sull'Autonomia dedicato alle esperienze meridionali (DeriveApprodi 2022). Ringraziamo gli autori e anche Francesco Festa per il permesso alla ripubblicazione.

Il gioco del drago (Rosso. Giornale dentro il movimento, nº 13-14, dicembre 1976)
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Vi è stato un tempo recente nel quale era ancora vivo un vecchio pregiudizio, presente anche nella sinistra rivoluzionaria, consistente nel pensare che l’intellettuale meridionale non potesse essere che, nel migliore dei casi, un borghese illuminato integrato nell’ordine dominante o, al peggio, un suo servo. In ogni caso qualcuno incapace di porsi su un terreno rivoluzionario. Qui vogliamo ricordarne uno che non solamente smentisce questo stupido pregiudizio, ma il cui pensiero parla ancora al nostro tempo.

Rivoluzionari nelle catacombe

Nicola Massimo De Feo (Barletta 1939 – Bari 2002) ha insegnato filosofia morale all’Università di Lecce e all’Università di Bari ed è stato, oltre che uno studioso di valore della filosofia contemporanea, un teorico dell’Autonomia tra i più originali anche se, scontando il pregiudizio, poco noto al grande pubblico.

Noi che scriviamo abbiamo avuto modo di conoscerlo nei primi anni ’80, frequentando il suo istituto all’università di Bari. Bisogna tener conto che in quegli anni era possibile farlo anche se non si era iscritti alla facoltà, l’istituto affidato a De Feo funzionava infatti come un luogo di incontro e di discussione per la piccola area di compagni e compagne che cercava di resistere alla marea contro-insurrezionale che montava in quel periodo. Erano gli anni del pragmatismo manageriale, dell’edonismo triviale, del pastiche postmoderno che si era rovesciato sulla società italiana all’indomani della sconfitta dei movimenti che avevano attraversato il decennio precedente. La repressione aveva incarcerato migliaia di militanti e costretto decine di migliaia di altri a un esilio forzato, un isolamento individuale che fu spesso segnato dall’eroina, dalla follia e dal suicidio – temi che saranno ben presenti nella riflessione filosofica defeana. La restaurazione italiana degli anni ’80 fu, realmente e non solo in metafora, la continuazione della guerra civile con altri mezzi.

De Feo ebbe la fortuna di passare indenne attraverso le maglie strette della repressione, dopo il 7 aprile preferì andare a Berlino a studiare per un po’ di tempo, e quindi a rimanere pur tra non poche difficoltà al suo posto nell’università. La sua contro-pedagogia, nel tempo, ci permise di capire noi stessi e l’epoca, di farci i conti e di prendere posizione rispetto al presente e alla nostra stessa soggettività: più che la filosofia morale, quello che imparammo con lui fu la possibilità di praticare un’etica della resistenza. Vivemmo un intero decennio come rivoluzionari nelle catacombe.

Negli anni Ottanta, mentre nel paese gli intellettuali per lo più tradivano tutto ciò che erano stati o avevano fantasticato di essere, l’istituto barese di filosofia morale si fece carico della trasmissione della tradizione rivoluzionaria, strappandola all’oblio distruttivo che era in procinto di sopraffarla. De Feo aveva compreso perfettamente la posta in gioco, la terra bruciata che minacciava di seguirne per delle generazioni ed il suo preoccuparsi di garantire la trasmissione della «storia degli oppressi», dei loro entusiasmi e delle loro rivoluzioni fallite fu un atto di fedeltà, prima ancora che di resistenza. In termini rigorosamente benjaminiani, De Feo si impegnò con tutte le sue forze nel salvare il passato dei vinti.

La cattedra di filosofia morale, con le sue anti-lezioni, i suoi seminari aperti, il suo modo collettivo di svolgere gli esami, lasciava molto spazio alla volontà di sapere, ai bisogni, ai desideri, alle discussioni politiche ed esistenziali delle soggettività che lo frequentavano e bisogna ricordare che queste non erano solo studentesche: militanti testardi, operai che avevano disertato la «fatica», marginali e sottoproletari erano ben accolti e anzi erano a volte chiamati ad animare le “lezioni”. De Feo amava il sottomondo di banditi e di disperati sociali che al sud Italia non hanno mai smesso di cospirare contro lo Stato italiano fin dalla sua fondazione, ed egli stesso appariva come un criminale di fronte al senato accademico e un paria per la nomenclatura del movimento italiano. Se per l’establishment universitario era inaccettabile il fatto che lui si autodestituisse in tanto che “professore”, minando alla radice l’autorità accademica, dall’altro lato egli stesso raccontava, con una sottile ironia, che quando negli anni ‘70 cercava di confrontarsi con i grandi capi dell’autonomia operaia organizzata, questi gli dicevano «Ma che vuoi fare lì? Non ci sono le fabbriche, non c’è la classe operaia, non si può far nulla!». L’incomprensione profonda e il fondamentale sospetto verso le esperienze meridionali coltivati non solo dal movimento operaio ufficiale, ma anche da buona parte della dirigenza informale del movimento rivoluzionario di quegli anni – il quale, al massimo, si beava di un «orientalismo» di sinistra – dovrebbero essere tenuti da conto quando, come oggi succede, si fanno i bilanci della stagione degli anni ’60 e ‘70. Siamo convinti che si comprenderebbe qualcosa in più dei motivi della sconfitta subita, della disfatta non di un movimento bensì di un’epoca.

Bari-Berlino e ritorno

La ricerca storica e teorica di De Feo parte dagli eventi della Comune di Parigi e dall’analisi che ne fa Marx ne La guerra civile in Francia, come movimento di espropriazione degli espropriatori, per poi concentrarsi sulla storia tedesca dalla fine del XIX secolo sino agli anni Ottanta del XX. Nello specifico egli ripercorre la politica contro-insurrezionale delle leggi antisocialiste di Bismark e il dibattito della sociologia tedesca degli anni del Reich, soffermandosi sull’esperienza del Verein für Sozialpolitik (“Associazione per la politica sociale”) e sul lavoro svolto in quel contesto da Max Weber e Werner Sombart, per poi passare ad una disamina della storia del riformismo e della razionalizzazione capitalistica a partire dall’emergenza sovversiva dei movimenti anarco-comunisti per la libertà illimitata, la propaganda dell’azione, l’azione diretta, espressa da oscure figure di cospiratori rivoluzionari come Sergej Nečaev, August Reinendorf, Johann Most, Joseph Peuckert, Arnold Roller e Karl Plättner. Inoltre, già dai primi anni ’60, cioè prima che nel decennio successivo altri a sinistra cominciassero a fare uso del pensiero negativo, De Feo iniziò a leggere Marx con Nietzsche e Heidegger e questo rimane a tutt’oggi uno degli aspetti più innovativi della sua ricerca, la quale consiste essenzialmente in una spietata diagnosi della crisi economica, politica ed esistenziale della civiltà occidentale.

È molto probabile, come sono soliti ricordare i suoi amici di vecchia data, che la passione conoscitiva per la Germania sia legata ad un evento traumatico dell’infanzia di De Feo: egli ha poco più di quattro anni, quando l’11 settembre del 1943 la divisione “Göring” e un reparto di SS, attaccano e occupano Barletta per due settimane, saccheggiandola, terrorizzandola e facendo decine di morti e feriti. Questi eventi lasceranno nella sua memoria una traccia indelebile che in età adulta si trasformeranno nella ricerca sulla comprensione del contesto degli avvenimenti di cui fu testimone.

Una questione rilevante, per De Feo, derivava dal fatto che le organizzazioni principali del movimento operaio lungo tutto il XX secolo sono rimaste ancorate a un’idea, ricavata dal Marx della Prefazione a Per la critica dell’economia politicadel ’59, secondo cui: «a un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà» e che, pertanto, il fine della rivoluzione politica consisterebbe essenzialmente in un superamento di tale contraddizione economica, legittimando così la trasformazione del marxismo in ideologia dello sviluppo. Ponendosi nella prospettiva di espandere le forze produttive al di là delle diseguaglianze, delle sproporzioni e delle ingiustizie del capitalismo concorrenziale, il marxismo riformista e buona parte di quello rivoluzionario offrirono così su un piatto d’argento al ceto politico borghese gli strumenti per delineare una gestione pianificata dello sviluppo e delle crisi, e questo a partire dalla Germania. Scrive De Feo:

Il marxismo di Bernstein, di Kautsky, di Hilferding e di Bauer ha posto le promesse teoriche e pratiche per un rilancio della teoria borghese dello sviluppo. Il capitalismo, infatti, grazie a questo impulso modernizzatore diventa un sistema economico e politico dinamico, che sviluppa le forze produttive e le relazioni sociali, la cultura, la scienza produttiva, la qualificazione e la professionalità, crea benessere, accresce i consumi, la coscienza sociale, la partecipazione e la democrazia […]. In questo movimento le crisi non indeboliscono a lungo lo sviluppo, né possono portare al crollo del sistema, ma, in definitiva, diventano salutari perché rendono possibili le ristrutturazioni e le conversioni, grazie alla dinamica autocorretiva del sistema, di cui la Sozialpolitik, e in particolare il sistema bismarkiano delle assicurazioni sociali, sono il modello classico più importante per tutto il capitalismo contemporaneo sino al piano Beveridge di sicurezza sociale (N. M. De Feo, Razionalizzazione, appropriazione e sovversione in Weber, Sombart e Marx. Una introduzione,in Id., Ragione e rivolta. Saggi e interventi 1962-2002, a cura di O. Marzocca, Mimesis, Milano 2004, p. 316).

Quello che è divenuto chiaro a molti negli ultimi anni, ovvero che la crisi è il modo di governo capitalista per eccellenza, era già evidente al ricercatore pugliese degli anni ‘70. Ma egli aggiungeva qualcos’altro, cioè che il carattere dinamico e autocorrettivo del capitalismo non deriva da meccanismi “naturali” (giusnaturalistici e/o di mercato), bensì dall’uso che può essere fatto della stessa critica marxiana per razionalizzare lo sviluppo capitalistico, una volta depurata dei suoi contenuti genuinamente rivoluzionari. L’esperienza del Verein für Sozialpolitik, che si sviluppa dall’epoca bismarkiana fino al nazismo, è emblematica proprio per questa ragione: «Il “Verein” costituisce il luogo e il tempo di più elevata crescita della coscienza riformista borghese. Che perviene alla più elaborata acquisizione e appropriazione teorica e politica del marxismo in Weber e Sombart. […] Che apre lo spazio per istituzionalizzare e sopprimere nello stesso tempo il movimento operaio nella gestione e pianificazione delle lotte per lo sviluppo e il lavoro» (N. M. de Feo, Riformismo, razionalizzazione, autonomia operaia. Il Verein für Sozialpolitick – 1872-1933, Laicata, Manduria-Bari-Roma 1992, p. 22). Capitalizzare la rivoluzione è diventata in questo modo la parola d’ordine strategica del riformismo borghese. Ma si noti anche come per De Feo ogni istituzionalizzazione dei movimenti di sovversione dell’esistente equivalga al loro annientamento, una lezione che non abbiamo mai smesso di dover reimparare.

Dal patto politico-sociale stipulato tra il grande capitale e la socialdemocrazia nasceva lo Stato-piano, sulla cui base si costituì la repubblica di Weimar. Soprattutto negli anni 1924-1928, il ruolo dei socialdemocratici fu essenziale per gestire il processo di riconversione dell’economia di guerra in economia di mercato, tramite l’introduzione dei metodi tayloristi e fordisti di gestione scientifica della grande fabbrica. Dopo il crollo di Wall Street del ‘29, lo Stato di Weimar, pur attraverso la gestione socialdemocratica di un’avanzata politica di riformismo sociale, non riuscì a governare la crisi in quanto non fu in grado di elaborare nell’immediato una strategia di controtendenza che ricomponesse l’unità infranta di crisi e sviluppo. Con l’approfondirsi della crisi, negli anni ‘29-‘33, i ministri socialdemocratici del governo weimeriano passeranno, pertanto, dallo Stato-piano allo Stato di eccezione, aprendo così la strada all’instaurazione del regime nazionalsocialista.

Lungo i cicli di sviluppo-crisi-ristrutturazione che si succedono tra gli anni ‘70 del XIX secolo e gli anni ‘20 e ‘30, per arrivare agli anni ‘70 del XX secolo, la cooptazione della socialdemocrazia e dei suoi sindacati nello Stato borghese si è dimostrato essere il dispositivo più efficace per garantire la normalizzazione e la pacificazione sociale. La genealogia tracciata da De Feo definisce con nettezza la biforcazione che, sin dagli esordi dell’epoca contemporanea, si dà in questo modo tra due movimenti operai, ovvero tra un movimento operaio ufficiale, egemonizzato dall’operaio professionale completamente inserito nei partiti socialisti e comunisti dei paesi occidentali, e un altro movimento operaio, magmatico, composto da una forza lavoro massificata, super sfruttata, non garantita, quasi sempre marginalizzata dal sistema dei partiti, che si sarebbe espressa nelle forme di lotta dell’azione diretta, del sabotaggio e dell’attentato, ponendo continuamente in crisi lo Stato-piano frutto del patto politico-sociale stipulato tra il grande capitale e il movimento operaio riformista.

Se il riferimento immediato di De Feo per ciò che attiene all’analitica del capitalismo e della forma-Stato è costituito dal marxismo eretico italiano – in particolare i “Quaderni Rossi”, Operai e capitale di Mario Tronti e gli opuscoli di Antonio Negri editi da Feltrinelli negli anni ’70 – lo scandaglio delle forme storiche dell’autonomia operaia invece prenderanno avvio dalla lettura degli studi di Karl Heinz Roth sull’altro movimento operaio, per poi proseguire con uno scavo storico originale sulla tradizione del comunismo anarchico tedesco. Tuttavia, la ricerca storica di De Feo non si può intendere se non viene immersa nell’atmosfera che caratterizza il suo approccio filosofico: il pensiero autonomo non si dà, per De Feo, a prescindere dalla triade Marx, Nietzsche ed Heidegger. Il punto di contatto tra l’operaismo e il pensiero negativo è probabilmente da ritrovare nella categoria radicale del rifiuto, la quale negli anni ’60 si trova ad essere elaborata tanto da Tronti quanto da Blanchot ma che possiamo far risalire al gesto nicciano per poi inseguirlo durante tutto il Novecento. Rifiuto dello sviluppo, in questo senso, non può che essere allo stesso tempo rifiuto del progresso e dunque dell’ideologia che ha marcato profondamente tutto lo spettro della sinistra. Se pensiamo poi a quanto quell’ideologia abbia contato nella distruzione delle forme di vita meridionali, capiamo meglio la ferocia con la quale De Feo la abbia affrontata.

Più in generale va sottolineata la cura con la quale egli si dedicò, fin dagli anni giovanili, alla storia teorico-politica della Germania, trascorrendovi frequenti periodi di studio che intensificherà a partire dalla fine degli anni ’70 in un impegno costante di esplorazione di tutti gli archivi, le biblioteche e i centri di documentazioni utili alla sua ricerca. Porterà infine una grande attenzione, osservandoli dall’interno, ai nuovi movimenti autonomi che si svilupparono nelle metropoli tedesche negli anni a cavallo tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80. Questo lavoro di inchiesta militante fu molto importante perché fu uno dei primi ad analizzare «le nuove tendenze dell’autonomia dopo Stammheim e il 7 aprile, dentro e contro lo stato d’emergenza e il “nuovo fascismo”». Gran parte di questa inchiesta confluirà in un articolo, intitolato Bandiere nere su Kreuzberg e pubblicato nel 1982 sulla rivista “Controinformazione”, che analizza la repressione e la resistenza del grande movimento di occupazione di case, come espressione dell’illegalità di massa e della riappropriazione sociale diretta, praticata dal proletariato multinazionale del più grande quartiere-ghetto di Berlino ovest. Ad uno sguardo retrospettivo l’articolo è ancora più interessante perché racconta, in presa diretta, il primo movimento autonomo europeo contro i processi di riqualificazione urbana e di gentrificazione che nei decenni successivi si estenderanno a tutto il continente, ovvero narra la nascita della resistenza alla più recente forma di sviluppo capitalistico nella crisi.

La ricerca storico-teorica di De Feo che abbiamo fin qui ricapitolato e che dura per più di venticinque anni, confluirà in due pubblicazioni edite nel1992 da un editore pugliese, Piero Lacaita, che si integrano l’una con l’altra: Riformismo, razionalizzazione, autonomia operaia: Il Verein für Sozialpolitik (1872-1933) e L’autonomia del negativo tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale. Ma se si confrontano questi due testi con quello di un suo seminario del 1975 – Autonomia operaia e militarizzazione dello Stato, dalla Repubblica di Weimar al Terzo Reich – salta agli occhi che il programma delle ricerche degli anni successivi è per la maggior parte delineato già dai primi anni ‘70.

In quegli anni De Feo si convinse che l’articolata varietà di forme e strategie dello Stato-piano di cui il capitalismo è riuscito ad avvalersi, a partire dalle politiche economiche e sociali del bismarkismo e poi attraverso le politiche keynesiane e dello Stato sociale, fossero un vicolo cieco confermato dalle lotte degli anni ’60. Quelle lotte avevano infatti stravolto ovunque le linee di produzione e di riproduzione della società capitalistiche, la regolazione dall’alto dei conflitti sociali per rilanciare sviluppo e consumi aveva miseramente fallito, mentre gli operai, le donne e i giovani si mostravano ostili, improduttivi e pronti allo scontro diretto con le istituzioni innescando così, a partire dalla fine degli anni ’60, un’ingovernabilità che determinò la crisi dello Stato-piano. All’inizio del decennio successivo, per permettere una ripresa dei profitti del capitale e riportare il rapporto di forza a suo favore, la classe dirigente dovette operare una restaurazione complessiva agita attraverso la crisi ed è così che si cominciò a parlare di Capitale-crisi e Stato-crisi. Scrive De Feo:

Sino a quando lo sviluppo del capitale-piano e dello stato-piano non si è ancora identificato con la crisi, conservando, nel tempo breve o lungo, la forma classica del ciclo come alternanza di espansione e depressione, il negativo ha funzionato come momento necessario ma subordinato dell’hegeliana Aufhebung del divenire, la rottura rivoluzionaria come variabile dipendente della teleologia storicistica-evolutiva e socialdemocratica dello sviluppo (L’autonomia del negativo…, p. 347).

Tuttavia, quando negli anni ‘60 e ‘70 tale dispositivo si frantuma, in quanto l’intervallo che intercorre fra crisi e ripresa si riduce sempre più, il negativo, liberato dal guscio della sua funzionalità allo sviluppo, diventa una variabile indipendente che fa esplodere la potenzialità sovversiva dei comportamenti individuali e sociali contro l’identità di crisi e sviluppo costantemente perseguita dal capitalismo. Ed è questa potenza che De Feo chiamò l’autonomia del negativo.

In Italia, la ristrutturazione del comando capitalista assunse una forma particolarmente violenta, quella della «strategia della tensione». Lo Stato scelse cioè, da un lato, di conquistare “i cuori e gli spiriti” con l’aiuto di un terrorismo stragista, dall’altro, dando inizio a una stagione governata tramite uno stato d’eccezione informale ma del tutto sensibile, materiale. Nel 1975 la legge Reale introdusse il fermo giudiziario, allungando la detenzione preventiva, punendo il travisamento del volto, estendendo abnormemente la definizione di arma impropria e riconoscendo il diritto alle forze dell’ordine di poter sparare e uccidere nel momento in cui un loro agente lo ritenesse necessario. È l’inizio delle cosiddette leggi speciali, poi perfezionate durante la breve stagione della lotta armata, che hanno fatto dell’Italia un paese in perenne stato d’emergenza; norme, val bene ricordarlo, che se all’inizio furono presentate come «provvisorie» sono ancora in vigore e persino con qualche peggioramento. È di questa guerra civile latente che parla in realtà il testo di De Feo dal titolo Autonomia operaia e militarizzazione dello Stato, dalla Repubblica di Weimar al Terzo Reich, che fu la relazione da lui letta nell’ambito dei seminari sulle “Matrici culturali del Fascismo”, organizzati dal Consiglio regionale pugliese e dall’Università di Bari nel Trentennale della Liberazione. Un testo che, con Foucault, potremmo definire di «ontologia del presente» e che rappresenta molto bene il singolare metodo di ricerca da lui utilizzato:

La militarizzazione del comando politico-statale del capitale-piano che si sviluppa dal regime di Weimar al Terzo Reich, continua in forma più consensuale e meno coercitiva, ma altrettanto e forse più scientificamente violenta ed armata, attraverso il regime di Adenauer, nella Socialdemocrazia di Willy Brandt e nell’imperialismo USA. […] L’apparato militare della violenza antioperaia dello stato nazista, in cui la “polizia di fabbrica” è integrata con l’apparato militare della repressione statale funziona ancora, e non solo nella RFT, come principale strumento della politica del lavoro e di razionalizzazione aziendale, non solo alla Ford di Detroit e di Colonia, ma anche alla FIAT di Torino; le funzioni speciali dei servizi segreti, dalla CIA al SID, sono di garantire la gestione diretta statale del terrorismo antioperaio, per controllare e colpire le punte più avanzate delle lotte di massa; il neo-fascismo, come arma di riserva dei corpi separati dello stato costituzionale antifascista, non è residuo del passato, ma funzione organica dello stato, come espressione del domino e della violenza armata sul lavoro vivo; lo sviluppo “nuovo” di settori “speciali” del terrorismo statale – dagli “uffici speciali” dei servizi segreti, ai capi nelle gerarchie di fabbrica, ai corpi anti-guerriglia e anti-terrorismo, dalle leggi liberticide della Germania democristiana del ’68, al Berufsverbot di quella socialdemocratica del ’75, alla “legge Reale”sulla licenza di uccidere, concessa in Italia ai corpi armati dello Stato –, questa crescita delle articolazioni del comando politico-statale porta la militarizzazione degli apparati repressivi statali a trovare nuove forme di legittimazione e ideologie, quali nuove aggregazioni neo-corporative anelanti alla pace sociale, alla difesa del lavoro salariato, alla lotta contro il sabotaggio e il terrorismo operaio ecc., alla ricerca di solidarietà e collaborazioni di massa per la difesa dell’ordine e del lavoro, alla criminalizzazione delle lotte, ecc. (N.M. de Feo, Autonomia operaia e militarizzazione…, in Id., Ragione e rivolta, pp. 247-248).

Per De Feo, l’accesso del PCI all’area di governo, in tempi di crisi incalzante, con l’intento di rilanciare lo sviluppo economico, non poteva che fornire elementi di legittimazione alla militarizzazione del comando politico-statale. Tuttavia non fu un semplice errore “tattico”, a suo avviso, bensì il risultato logico della storia del Movimento Operaio, il quale ben presto ha cominciato a considerare la pianificazione razionale, la gestione politica e la socializzazione dell’economia come strumenti decisivi per la realizzazione del socialismo e del comunismo. Il risultato fondamentale della sua genealogia delle strategie di piano consiste quindi nell’aver mostrato che la Sozialpolitick, lo Stato-piano, lo Stato nazi-fascista, il Welfare State e lo stesso socialismo reale non fossero altro che forme, dirette o indirette, della medesima razionalità economica il cui esito è la distruzione delle possibilità di liberazione del proletariato dal dominio capitalistico. In tal senso la prospettiva entro la quale occorre pensare la rivoluzione sociale non può più essere quella della gestione socialista dell’economia e della società attraverso lo Stato; quello che non può più essere sacrificato a questa prospettiva è la liberazione immediata dei bisogni del proletariato, il suo affrancamento dalla razionalità economica e dall’etica del lavoro. La tradizione del comunismo anarco-autonomo, secondo quel De Feo che aveva cominciato la sua militanza nel Pci per poi attraversare diversi gruppi della nuova sinistra uscendone regolarmente deluso, è quella che presenta il più gran numero di movimenti e figure che hanno provato storicamente a percorrere quella strada, pagando indubbiamente un prezzo altissimo ma mostrando, al contempo, la possibilità di una lotta per il comunismo vista non come costruzione a venire di un modo di produzione alternativo, di un diritto più “giusto” o di un Stato umanista, bensì come l’affermazione di una forma di vita liberata che si ponesse contro e fuori il sistema dell’economia e della politica. Quella che ci presenta De Feo è una lotta anarchica per il comunismo attraverso il comunismo, ovvero la sconfessione di ogni mediazione, di ogni diversa, progressiva e democratica gestione del capitale. La categoria di “transizione” è per lui dunque risolta nell’identificazione tra mezzo e fine. E questo è senza dubbio uno dei punti che fanno l’originalità di De Feo nella tradizione rivoluzionaria italiana del secondo Novecento.

Nella Berlino dei primissimi anni ’80 De Feo fu colpito dalla particolare composizione sociale del movimento di rivolta composto da immigrati, prostitute, omosessuali e giovani precari, un basso proletariato la cui forma di vita era una fascio di contraddizioni urlanti di cui aveva già esperienza nel sud Italia, dove l’Autonomia era composta principalmente da quel genere di soggettività minori: «sono le tendenze emerse nelle lotte dei disoccupati di Napoli, ma che hanno un preciso decorso multinazionale, coinvolgendo proletari periferico-meridionali con quelli metropolitani» (Bandiere nere su Kreuzberg). Inoltre, in città come Napoli e Bari, vi era una grande fascia di sottoproletariato spesso legato alle attività extra-legali, come il contrabbando di sigarette, che ebbe uno stretto rapporto con i movimenti dandogli un impronta singolare, per esempio facendoli più attenti che altrove alle rivolte nelle carceri oltre che al soddisfacimento immediato dei bisogni, e al quale De Feo guardava con attenzione e fiducia. A Bari, a parte alcuni studenti, la maggioranza dei militanti autonomi – o di coloro che comunque si comportavano en autonome – proveniva effettivamente dalle sacche di emarginazione sottoproletaria, dai quartieri ghetto, dalla disperazione metropolitana. Autonomia, almeno per noi terroni, significò destituire il tabù da sempre presente nella tradizione comunista riguardo al lumpenproletariat, il quale apportò al movimento un prezioso sapere dell’illegalismo, oltre a far nascere delle inedite forme di amicizia sovversiva.

Ciò che va sottolineato è che la crescita del conflitto, lo sprigionarsi del negativo, era dovuta alla risposta proletaria alla «modernizzazione» che la Democrazia Cristiana aveva impresso sul territorio. Intere fasce di proletariato, a Bari, come a Napoli e Palermo, erano state deportate dai centri storici verso le nuove periferie terreno di speculazione immobiliare, dove migliaia di famiglie venivano rinchiuse dentro enormi alveari umani, immersi in un deserto di cemento privo di qualsiasi attività sia commerciale che ricreativa o culturale. La disperazione e la rabbia che i giovani accumulavano in questi ghetti si riversò nella possibilità di distruzione che si aprì durante quegli anni, ma così fu anche per il loro desiderio di felicità e di vita in comune che il movimento era riuscito a rendere qualcosa di praticabile attraverso l’apertura di nuovi spazi nel cuore stesso delle metropoli. Inoltre vi erano gli studenti proletarizzati, i fuorisede delle Università, che costituirono una delle forze più importanti dell’Autonomia, diffusa tra le capitali del sud e del centro-nord, e che furono a Bari tra i maggiori protagonisti anche dell’esperienza che ebbe luogo attraverso l’istituto universitario di De Feo. In Germania egli aveva compreso che al modo di distruzione capitalistico poteva essere opposta solamente una serie di gesti di distruzione individuali e collettivi che contenessero in sé, nel proprio corpo, le caratteristiche incarnate di una comunità liberata vivente oltre la modernità. Le bandiere nere che fluttuavano nel cielo berlinese in rivolta erano le stesse che lui aveva visto sventolare mille volte negli sguardi degli oppressi e dei disperati della sua terra.

Teoria dell’Idiota

Nella prima metà degli anni ’70, la teoria dell’«operaio sociale» e della «fabbrica diffusa», abbozzata da Antonio Negri nel suo opuscolo Proletari e Stato del 1975, interesserà moltissimo De Feo, proprio per la riattivazione di figure e comportamenti che eccedevano quelli della classe operaia tradizionale e che erano tipici della tradizione sovversiva a cui lui faceva riferimento. Chi era l’operaio sociale? Un po’ chiunque, nel senso che il concetto si riferiva a una tendenziale proletarizzazione di massa dovuta alla socializzazione capitalistica della produzione sul territorio, dunque a una diffusione di comportamenti sovversivi e potenzialmente rivoluzionari che iniziavano ad avere una certa omogeneità. Rientravano in quel personaggio concettuale tutte le soggettività che non avevano mai avuto posto nell’analisi tradizionale marxista, o se l’avevano era in senso negativo, come i disoccupati, gli «emarginati» di ogni tipo, le donne, i lavoratori della conoscenza, gli studenti, le minoranze sessuali, i sottoproletari: tutti coloro che in qualche modo esprimevano «della plebe», nei termini in cui lo ha enunciato Foucault, erano «operaio sociale». Ma De Feo non romanticizza tale figura, anzi la immerge in una violenta e torbida atmosfera nella quale il “soggetto” dell’antagonismo non solo si diffonde ma si frantuma, venendo continuamente attraversato dalla malattia, dalla follia, dal crimine, dalla menzogna, da tutti i segni che la civiltà capitalista infligge al corpo sociale come prezzo per la sua sopravvivenza. Seguendo il suo ragionamento, alla socializzazione capitalistica della produzione corrispondeva infatti una desocializzazione metropolitana, della quale oggi viviamo la maturità.

L’avvento della cibernetica come strumento di governo dell’economia e delle anime (De Feo fu uno dei primissimi a occuparsene, nel 1965, con il saggio “Cibernetica e dialettica sociale nella rivoluzione scientifico-tecnologica” nel quale egli pone delle domande alle quali risponderà solo due decenni dopo), il nucleare come apparato tecnico-militare di dominio, il controllo come forma allo stesso tempo di produzione e di gestione della soggettività, per De Feo sono tutte facce di un solo problema che nella modernità ha ricevuto il nome di nichilismo. Davanti a tale questione per De Feo «operaio sociale» risulta dunque una definizione utile sociologicamente ma insufficiente a descrivere antropologicamente l’anomala figura che risultava dalla dissoluzione nichilista del moderno e alla quale, infatti, dona un nome ripreso dal suo amato Dostevskij:

Nelle condizioni dello sfruttamento informatico dell’intelligenza sociale viva del proletariato di tutta la società, della distruzione della natura e della catastrofe nucleare, l’idiota appare come una figura centrale nella composizione di classe emergente dell’espropriazione proletaria. (“Sovversione e liberazione”, in L’autonomia del negativo, p.312).

L’idiota in De Feo è una figura che, riflettendo dentro di sé la quotidianità di un mondo non solo scisso ma frammentato, appare «da un lato gabbia della desensorializzazione e della narcosi paralizzanti del corpo malato del proletariato sociale, dall’altro fabbrica dell’immaginazione sovversiva, sabotaggio quotidiano dell’esistente» (ibidem). Idiozia perché è lo stesso soggetto oppresso a dare allo Stato gli strumenti della razionalizzazione mentre dall’altro è protagonista, cosciente o meno, del suo sabotaggio. Da una parte dispositivo di potere, dall’altra forza di liberazione attraverso e contro la sua stessa negatività. Immagini esemplari dell’idiota De Feo le ritrova nel protagonista sub-proletario del romanzo di Döblin Alexanderplatz, nell’Ulisse di Joyce, in Pasolini e Fassbinder, ma ne rintraccia specialmente il riscatto «nei movimenti metropolitani di occupazione delle case e di formazioni delle comuni (…) nell’infinita rete di aperta-e-o nascosta guerriglia quotidiana, per lo più anonima, dentro e contro l’azione distruttiva delle istituzioni totali, carcere, famiglia, scuola, etc. Qui il corpo costruisce, consapevolmente e inconsapevolmente, una trama aperta e segreta di azioni e comportamenti molecolari, distruttivi e creativi, di sabotaggio e disvelamento, che richiama, promuove ed attraversa tensioni sociali, libidini e tensioni erotiche, al di fuori, dentro e contro i percorsi istituzionali della razionalità dello scopo, dell’utilità e del lavoro, una rete, reale e-o immaginaria, di sub-comunicazione, al di fuori e dentro i codici linguistici, i valori e i fini sussunti dalla forma del dominio e dei suoi rapporti reificati» (idem, p.312-13). Il sottotitolo del suo libro capolavoro, ci riferiamo a L’autonomia del negativo, avrebbe potuto benissimo essere Teoria dell’idiota o del proletariato del «sottosuolo».

Ai lettori più attenti non sfuggirà l’estrema vicinanza de l’idiota e del proletariato del sottosuolo di De Feo al Bloom e al partito immaginario teorizzati dalla rivista “Tiqqun” a cavallo del millennio. Il Bloom è l’espropriato di tutto a partire dal linguaggio e quindi idiotizzato, un personaggio concettuale mutuato da Joyce per l’appunto, mentre il partito immaginario è il tentativo di leggere l’ambivalenza cospirativa di questo non-soggetto e la infinita positività racchiusa nel fondo abissale di negatività che contraddistingue la sua quotidianità reificata. Tiqqun infatti, allo stesso modo di De Feo, legge la nostra epoca come quella della resa dei conti con il nichilismo e avrebbe senz’altro condiviso l’idea del filosofo pugliese e cioè quella che, per oltrepassare la modernità, bisognasse demolire tanto il nichilismo debole, cioè quello della borghesia e del suo Stato, quanto quello forte, rappresentato principalmente dal leninismo e dal suo di Stato – di entrambi infatti, secondo De Feo, è maestro il terrorista Nečaev – e nel mezzo, potremmo aggiungere, il nichilismo mediocre, cioè quello della sinistra impotente.

Contro la politica, la «rivoluzione profonda».

Nella cultura autonoma non si è mai compresa molto bene la distinzione cruciale, per altro molto chiara nelle pratiche dell’Autonomia, tra la “politica” e il “politico”, ovvero tra la gestione, l’amministrazione, la razionalità governamentale e la dimensione antropologica tipicamente occidentale del conflitto e tale limite conoscitivo potrebbe spiegare il suo ricorrente impantanarsi nelle sabbie mobili dell’ideologia. La ricerca teorica di De Feo crediamo non solo aiuti a chiarire quella distinzione ma la porti a un più profondo livello di comprensione etica, politica e spirituale, poiché concerne in gran parte l’analisi del dissidio tra quelle due dimensioni, il quale ha caratterizzato interamente la tragica avventura del militante rivoluzionario moderno. Per De Feo, in realtà, il compito della sovversione consiste esattamente nel superare la scissione abolendo entrambe le dimensioni – la politica e il politico – e per far questo invita a non perdersi nell’esteriorità, qualunque forma questa possa prendere – Stato, partito, chiesa, organizzazione terroristica – ma a intraprendere un viaggio nel “profondo”, categoria che a lui è suggerita da un certo uso che fa della psicanalisi, in particolare di quella rivoluzionaria di un Otto Grosse.

L’ostacolo principale della rivoluzione per De Feo è senza dubbio la “politica” ma, allo stesso tempo, non può esimersi dal segnalare costantemente quanto il “politico” sia stato responsabile della degenerazione della rivoluzione e come esso, in effetti, nomini la punta più avanzata del nichilismo. La guerra civile che il politico porta con sé è inevitabile e tuttavia, per De Feo, il proletariato idiotizzato deve riuscire a trascenderlo per lasciar essere la liberazione. La rivoluzione politica invece, secondo De Feo, fa di quella sociale un mezzo per la sua affermazione per poi, inevitabilmente, soffocarla. Da qui la necessità di sbarazzarsi di quell’ipoteca epocale sui destini di qualunque sollevazione: Dioniso contro Apollo, il Cristo contro il Grande Inquisitore, l’Idiota contro il dominio cibernetico.

Per De Feo, in un certo senso come per Tronti ma arrivando a una diversa conclusione, la politica può essere intesa solo nella sua separatezza dal sociale, il quale però nella tarda modernità è stato dissolto in quanto campo della divisione in classi, lasciando così alla sfera dell’economico un dominio totale tanto sul politico che sul cosiddetto sociale. In questo senso De Feo sostiene la necessità di passare dal conflitto all’antagonismo, dalla lotta dentro e contro la produzione a quella dentro e contro la riproduzione, dalla lotta operaia per lo sviluppo e il lavoro a quella comunista per i «bisogni radicali». Le considerazioni strategiche di De Feo non possono quindi essere che le seguenti:

Oggi, dopo decenni di fallimentari esperienze di “stati Popolari” socialdemocratici e marxisti-leninisti, è possibile rovesciare il nesso di dipendenza della rivoluzione sociale dalla rivoluzione politica (…) il mutamento della composizione politica di classe, nella direzione della crescente massificazione e generalizzazione sociale del “proletariato disperato”, degli abreki di cui parla Bakunin, distruggendo il mito della rivoluzione come vocazione-professione, del capitalismo come forma-stato e della forma-partito come supporto della pianificazione, della lotta e della gestione-sviluppo della rivoluzione politica, socialista, comunista, ecc., libera la rivoluzione sociale come azione diretta e autonomia di massa, non più volta a riprodurre nuove forme di dominio, ma a distruggerle. Che è la condizione per liberare la rivoluzione sociale dalla rivoluzione politica (L’autonomia del negativo, p.41).

E nei giorni in cui scriviamo non possiamo fare a meno di notare come queste considerazioni vivano nella più grande rivolta americana a partire dal dopoguerra, non solo per la sua composizione sociale, non solo per la sua irrappresentabilità nella sfera politica, ma nell’evidenza stessa del suo slogan: No justice, no peace! Abolish the police!

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