Heidegger e l'autonomia del negativo

Nicola Massimo de Feo, 15/07/2020

Materiale datato: 01/01/1979

Heidegger e l’autonomia del negativo è il testo che De Feo pubblica in “Aquinas” nel 1979 per poi riprenderlo, modificato, nel volume L’autonomia del negativo (1992) con il titolo Marx, Heidegger e l’autonomia del negativo. Lo si può, forse, considerare come il terzo momento di un confronto con Heidegger iniziato già tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. In una congiuntura storico-intellettuale dominata da correnti esistenzialiste e fenomenologiche, l’allora ventenne De Feo attraversa l’opera di Heidegger dall’interno, come forse pochi intellettuali di quell’epoca hanno fatto. Nei primi anni Settanta la prospettiva cambia: all’attraversamento interno, e destrutturante dell’opera di Heidegger, segue una lettura in termini di storicismo politico, che mostra tutte le potenzialità e i limiti della rivoluzione conservatrice nella quale il pensiero di Heidegger si iscrive. Questa terza fase, alla fine degli anni Settanta, della quale Heidegger e l’autonomia del negativo testimonia, mette da parte ogni lettura che volesse riproporre “i consunti schemi interpretativi delle ideologie tardo borghesi e del catastrofismo”, scrive De Feo. Non solo Heidegger diventa, qui, il pensatore della sussunzione reale, ma anche l’autore che consente di strappare definitivamente Marx a Hegel e all’hegelismo. E questo attraverso una discussione radicale del tema del negativo. Dalla sinistra hegeliana ad Heidegger e alla scuola di Francoforte, il pensiero negativo ha permesso di liberarsi dai residui metafisici e di pensare le trasformazioni sociali ed economiche in termine storici. Tuttavia, così facendo, la traiettoria del pensiero negativo ha anche fissato o rovesciato la comprensione di questi fenomeni in un’ideologia del dominio totalitario e tecnologico del capitale. Pensare fino in fondo la questione della negatività, il peso più pesante che il pensiero del XIX secolo ci ha lasciato in eredità, è il compito che queste pagine ci danno da pensare. O, forse, è il compito al quale tutto il pensiero contemporaneo, in un modo o nell’altro, già da tempo cerca di sottrarsi, invano?

cortége de tête
↓ Scarica il pdf ↓

N. M. de Feo, Heidegger e l'autonomia del negativo, in "Aquinas", 22, 1979, pp. 242-258.

I

Nella crisi attuale, è possibile e necessaria una nuova riflessione su Heidegger, che senza riproporre i consunti schemi interpretativi delle ideologie tardo‑borghesi del catastrofismo e della reificazione, ne espliciti tutta la capacità di astrazione determinata rispetto al nesso antagonistico tra crisi, ristrutturazione ed il marxiano movimento di distruzione operaia dello stato di cose presenti. Muoviamo dalla riproposizione heideggeriana della Seinsfrage, negli anni ‘60, come esigenza di rifondazione dei processi di razionalizzazione tecnico‑scientifica, automazione e massificazione[1], che la radicalità della crisi attuale non riesce più a tradurre né in nuove ideologie di legittimazione, né in nuovi modelli di filosofia della cultura, per fissare i caratteri ed i significati del negativo e del pensiero negativo, attraverso e al di là dell’heideggeriano “superamento della metafisica”, come “compimento” dell’“essenza della tecnica moderna” e dissolvimento del pensiero pianificante e della razionalità calcolatoria. Che è la forma concreta, sia pure al livello dell’astrazione dell’“analitica esistenziale”, che rifiuta ormai di definirsi come “ontologia fondamentale[2], in cui si manifesta la crisi del capitalismo organizzato e dello Stato piano. Non solo per recuperare un fecondo terreno d’analisi delle forme specifiche della crisi, al livello delle formazioni logico‑teoriche e ideologiche del “pensiero calcolatorio” e della “razionalità pianificatrice” della Kultur borghese‑riformista guglielmino‑weimarese (da Weber a Scheler a Mannheim) - ma anche per comprendere, attraverso la critica dell’ideologia e della metafisica del cosiddetto “pensiero negativo”, da Kierkegaard a Nietzsche, Freud, Dostoevskij, Kafka, Heidegger, ecc., se e sino a che punto l’emergenza del negativo - come crisi, crollo, malattia, decadenza, follia, disperazione, esclusione ecc. - non opera più come ambito di compensazione‑ristrutturazione‑razionalizzazione delle contraddizioni e dei conflitti esistenti, parallelamente, anche se con segno ideologico opposto, alla secolare funzione di “stimolo” che il movimento operaio professionale, sindacale e socialdemocratico ha esercitato sullo sviluppo economico del capitalismo moderno[3]. Che è il problema posto con estrema chiarezza da Marx nei Grundrisse della trasformazione del rapporto di conflitto - il sistema della pluralità e diversificazione dello scambio - a rapporto di antagonismo - la lotta di classe nella produzione -, o come dice Marx con categorie hegeliane, parlando del denaro e della sua duplicità di valore di scambio: “[...] - questa duplice e diversa esistenza deve passare a differenza, e la differenza ad antitesi e contraddizione[4], la cui “unità violenta” è la crisi; il problema, cioè, del come questa unità violenta della crisi, che lo sviluppo economico esprime nell’identificazione antagonistica di “valorizzazione” e “svalorizzazione” del capitale, nella riduzione del “lavoro necessario” e nella violenta “riappropriazione di massa” operaia, si contrappone alle nuove forme di dominio capitalistico del pluslavoro relativo e del meccanismo delle controtendenze[5].

Spiegando la crisi come “unità violenta” delle contraddizioni dello sviluppo, Marx ha indicato una strada per una adeguata comprensione dell’emergenza del negativo e per una critica delle ideologie del “pensiero negativo”, che è necessario percorrere a partire da alcune considerazioni sulla crisi attuale. La proprietà della crisi del capitalismo pianificato si esprime nella capacità di pianificazione, razionalizzazione e calcolabilità della forza distruttiva che il capitale esercita per riprodurre se stesso a crescenti livelli di “razionalizzazione scientifica e tecnica”, di “automazione” e di “massificazione”, di cui, dice Heidegger in termini marxiani, l’uomo è diventato prodotto del proprio prodotto[6]. Sia pure nella forma ideologica della reificazione da razionalizzazione, Heidegger coglie il nesso marxiano di sviluppo e crisi, come un’identità non congiunturale, ma costitutiva e progressiva dello sviluppo. In essa, il negativo e il pensiero negativo hanno perduto ogni possibile funzione di anticipazione utopica, nel senso della razionalizzazione di Mannheim, dei processi di ristrutturazione‑innovazione e riadattamento della razionalità capitalistica. Alle mutate e progressive esigenze di ricomposizione del lavoro vivo, all’alternanza ciclica di espansione e depressione, di crescita e crisi, si sostituisce un meccanismo di identificazione di sviluppo e crisi come governo pianificato della distruzione dell’espansione delle forze produttive, del nuovo dispotismo militare‑nucleare, della frammentazione ed atomizzazione e massificazione del lavoro vivo; alle lotte operaie per lo sviluppo ed il lavoro, la classe operaia massificata contrappone, o sostituisce, la lotta comunista per i “bisogni radicali” (Heller), e contro la legittimazione social‑democratica della legge del valore e il fascismo stalinista del piano, il nuovo proletariato sociale pratica la violenza di massa organizzata contro lo stato per la riappropriazione di massa[7].

Sino a quando lo sviluppo del capitale‑piano e dello stato‑piano non si è ancora identificato con la crisi, conservando, nel tempo breve o lungo, la forma classica del ciclo come alternanza di espansione e di depressione, il negativo ha funzionato come momento necessario ma subordinato dell’hegeliana Aufhebung del divenire, la rottura rivoluzionaria come variabile dipendente della teleologia storicistico‑evolutiva e socialdemocratica dello sviluppo. La Prefazione della marxiana Per la critica dell’economia politica del ‘59, presentando la rivoluzione sociale ed il mutamento, come processi di riadattamento dei rapporti di produzione alle forze produttive, è diventato il documento più significativo dell’ideologia del lavoro pianificato e dello sviluppo che ha ispirato e dirige ancora oggi la falsa alternativa tra socialdemocrazia, fascismo e stalinismo del capitale‑piano[8]. Sviluppandosi in questo ambito sin dalla “grande depressione” degli anni Settanta del secolo XIX, giungendo alla crisi degli anni ‘30, il pensiero negativo, dalla sinistra hegeliana, con Nietzsche, Freud e Weber, sino ad Heidegger, Bloch, Sartre e i teorici di Francoforte, estendendo la critica sdogmatizzatrice dell’ideologia e della metafisica cristiano‑borghese dal piano etico‑individuale a quello storico, sociale ed economico, ha reso passibile quella comprensione astratta ed impersonale delle forze produttive e dei rapporti di produzione della scienza, del progresso tecnico, del lavoro e dello stato -, che ha accelerato i processi di razionalizzazione, automazione e massificazione dello sviluppo[9]. L’alternanza ciclica di sviluppo e crisi, di espansione e di depressione, riorganizza in modo mobile, attraverso l’istituzionalizzazione socialdemocratica del conflitto per il lavoro e lo sviluppo, la negatività delle contraddizioni soggettive ed oggettive, delle tensioni e delle lotte, per la riorganizzazione e riproduzione del dominio e dello sfruttamento della forza produttiva sociale del “General intellect[10], come progresso tecnico, innovazione e pianificazione. Rovesciando e distruggendo il sistema teologico‑metafisico dell’Aufhebung hegeliana, il “pensiero negativo”, da Kierkegaard‑Schopenhauer a Marx‑Lenin, nella pluralità‑diversità‑contraddittorietà della “critica critica”[11], che comprende le varianti storico‑sociologiche, neo‑positiviste, neo‑kantiane e fenomenologico‑esistenziali della Kultur guglielmino‑weimarese e l’alternarsi delle tendenze neo‑kantiane e neo‑hegeliane del materialismo storico‑dialettico secondo- e terzainternazionalista, ne realizza il metodo onto‑logico come nesso di “essere‑nulla‑divenire”.

II

Oggi, tuttavia, questo equilibrio delle compensazioni delle contraddizioni soggettive ed oggettive dello sviluppo, fondato sulla sussunzione del negativo e sulla istituzionalizzazione del conflitto, si va frantumando. La progressività dell’identità violenta di sviluppo e crisi allarga la spirale della distruzione capitalistica e della ricomposizione‑socializzazione della domanda proletaria di comunismo, che se da un lato riproduce il potenziale dell’astrazione impersonale del “General intellect” nella sussunzione‑appropriazione capitalistica del lavoro sociale astratto e della potenza astratta della scienza e del progresso tecnico, nello stesso tempo, esaspera l’emergenza antagonistica del proletariato sociale espropriato, che nella negatività, astrazione ed esclusione della sua esistenza immediata, diventa il momento ed il movimento stesso che rovescia soggettivamente ed oggettivamente lo stato di cose presente. L’estrema astrazione del lavoro espropriato dalla crisi e dallo sviluppo e ricomposto come antagonismo dell’assoluta negatività della lotta proletaria, segna l’emergenza della socializzazione del negativo che unifica in se stesso, distruggendola, l’identità di sviluppo e di crisi, nel movimento di assoluta contrapposizione e di riappropriazione della propria realtà scissa. Marx delinea questo movimento di emergenza dell’autonomia del negativo, che diventa l’assoluta positività della riappropriazione della ricchezza sociale del comunismo come movimento soggettivo‑oggettivo di distruzione dello stato di cose presente, quando, nei Grundrisse,descrive il movimento concreto del lavoro astratto:

La separazione della proprietà del lavoro si presenta come legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro. Il lavoro posto come il non‑capitale in quanto tale è 1) lavoro non‑oggettivato, negativamente concepito (ma pur sempre oggettivo; il non‑oggettivo stesso in forma oggettiva). Come tale esso è non‑materia prima, non‑strumento di lavoro, non‑prodotto grezzo: il lavoro separato da tutti i mezzi e gli oggetti di lavoro, dalla sua intera oggettività. È il lavoro vivo esistente come astrazione da questi momenti della sua effettiva realtà (e altresì come non‑valore), questa completa spoliazione, pura esistenza soggettiva, priva di ogni oggettività, del lavoro. È il lavoro come miseria assoluta: la miseria non come privazione, ma come completa esclusione della ricchezza oggettiva. O anche, in quanto è il non‑valore esistente, e perciò un valore d’uso puramente oggettivo, che esiste senza mediazione, questa oggettività può essere soltanto un’oggettività non separata dalla persona, soltanto una oggettività coincidente con la sua immediata esistenza corporea. Poiché l’oggettività è puramente immediata, essa è altresì immediatamente non‑oggettività. In altre parole: un’oggettività che non va al di là dell’immediata esistenza dell’individuo stesso; 2) è lavoro non‑oggettivato, non‑valore, concepito positivamente, o negatività riferentesi a se stessa; in quanto tale esso è l’esistenza non‑oggettivata, quindi non‑oggettiva, i.e. soggettiva del lavoro stesso. È il lavoro non come oggetto, ma come attività, non come valore esso stesso, ma come sorgente viva del valore. Di fronte al capitale, nel quale la ricchezza generale esiste oggettivamente, come realtà, esso è la ricchezza generale ma come sua possibilità generale, che si conferma nell’attività come tale. Non è affatto una contraddizione dunque affermare che il lavoro per un lato è la miseria assoluta come oggetto, per l’altro è la possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività; o piuttosto i due lati di questa tesi del tutto contraddittoria si condizionano reciprocamente e derivano dalla natura del lavoro, giacché questo, come antitesi, come esistenza antitetica del capitale, è presupposto dal capitale, e d’altra parte presuppone il capitale”[12].

Nella crisi, il negativo cessa di operare come variabile dipendente, ed esplode nella e come violenza distruttiva del capitale come non‑capitale e come non‑lavoro, come soggettività astratta divenuta oggettiva nella determinata composizione di proletariato sociale, che totalizza l’emergenza della riappropriazione della ricchezza sociale assoluta, come rifiuto del lavoro e distruzione dello stato. Se la lotta del proletariato sociale contro il lavoro salariato è l’unica via per la distruzione dello sfruttamento del lavoro sociale, la distruzione dei manicomi, delle carceri e della violenza armata del capitale piano e dello stato piano, è il momento iniziale dell’abolizione dei rapporti di dominio, della malattia e dell’esclusione, che Nietzsche, Freud, Dostoevskij, Marx, Kafka hanno scoperto come la concreta articolazione individuale e storico‑sociale della negatività dialettica dello sviluppo, che l’Aufhebung hegeliana aveva determinato come mediazione astratta del processo storico‑sociale. L’autonomia del negativo esplode la potenzialità eversiva dei comportamenti individuali e sociali, che nella crisi non trovano più legame e funzione nella sussunzione dei ruoli organizzati dello sfruttamento, del dominio, della repressione, dell’esclusione, marginalizzazione del lavoro vivo, ma che, al contrario, nella perdita di legittimazione dello stato, del piano e dello sviluppo, trova nella sua articolazione istituzionale della fabbrica, della scuola, delle carceri, dei manicomi, della chiesa ecc., il canale e la rete organizzata della lotta di liberazione e di riappropriazione. Riteniamo importante insistere su questo momento della potenzialità rivoluzionaria racchiusa e mistificata dal e nel pensiero negativo, che è possibile liberare quando esso sia liberato dal guscio ideologico della funzionalità allo sviluppo, ristrutturazione ed organizzazione degli elementi utopici del capitale piano e dello stato piano. E questo non in conseguenza di un intervento soggettivo o di una scelta individuale, o almeno non soltanto, ma anche, fondamentalmente, per un processo reale che, identificando crisi e sviluppo, mentre accresce il potere determinante del negativo nello e per lo sviluppo, lo rende autonomo e lo costringe ad una ricomposizione‑rovesciamento nella positività della domanda di comunismo. Che al di là dei pasticci ideologici di marxismo, psicanalisi, esistenzialismo, neopositivismo, fenomenologia, cristianesimo, ecc., rende possibile recuperare immediatamente, nella lotta proletaria di riappropriazione e di distruzione dello stato‑capitale, la continuità, nel rapporto sociale di produzione, del nesso di sfruttamento‑dominio‑repressione‑malattia‑esclusione‑disperazione‑morte‑angoscia, non per ricostruire meglio le fabbriche, le chiese, i manicomi, le carceri, la patria, la famiglia ecc., ma per distruggerle e liberare i “bisogni radicali”. Questo processo passa attraverso la riappropriazione critica del negativo e la distruzione dell’ideologia irrazionalistica e tardo borghese che ha rivestito, nascosto, deformato e respinto, da Kierkegaard ad Heidegger, la sua radicale positività ed autonomia. E questo diventa possibile sin da ora, se rinunciando alla pretesa di distinguere e contrapporre dogmaticamente sistema (contenuto) e metodo (forma) del pensiero negativo, a partire da Heidegger, che di questa tradizione ci sembra essere l’interprete e l’erede teoricamente più adeguato e sistematico, ne ripercorriamo heideggerianamente la “memoria”, liberando il nesso interno di verità‑nonverità, di occultamento‑illuminazione, di distruzione‑creazione, che specifica oggi un livello determinato di riappropriazione teorica della contraddizione marxiana del lavoro vivo tra “miseria assoluta e “possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività”.

III

L’occasione ci è offerta dagli scritti heideggeriani raccolti nel volume Zur Sache des Denkens, pubblicato nel 1969, e che appare la parola conclusiva di Heidegger sulla Kehre e sul complesso e vario “erramento” da Sein und Zeit (1927) a Zeit und Sein (1962).

Negli anni ‘20, quando il movimento della Rationalisierung sconvolge radicalmente non solo la composizione tecnica e politica dell’operaio qualificato, ma anche i caratteri e le fiducie del suo vecchio quadro ideologico e sociale‑accademico della Kultur guglielmina, avviando un processo di progressiva interdipendenza ciclica tra massificazione del lavoro sociale complessivo e dequalificazione‑proletarizzazione dell’intellettuale come tradizionale portatore privilegiato del frei Geist come figura predominante di tutta una fase “classica” dell’uso capitalistico della scienza e del progresso tecnico - quando, nel ‘27, gli entusiasmi borghesi e riformisti per la conquistata “stabilizzazione” esprimevano in modo non del tutto adeguato la nuova fase del capitalismo organizzato dominato dalla centralità del fenomeno ciclico e del dibattito inasprito sulla politica economica anticiclica dello “Stato sociale assistenziale”, sulla natura dell’intervento pianificatore dello stato, sulla democratizzazione, la socializzazione, il patto sociale e le riforme[13] – la Seinsfrage heideggeriana riproponendo il problema del senso dell’essere nell’analisi esistenziale del tempo e delle sue modalità costitutive dell’esserci, come apertura estatica delle possibilità d’essere della finitudine, della morte e dell’angoscia anticipatrice, esprime già il primo livello di esigenza di riappropriazione teorica del finito, a partire dalla negatività dell’universale e irreversibile reificazione - la “deiezione” nell’“impersonalità” dell’“inautentico” e nella dispersione banalizzante del “quotidiano”, della “cura” insensata e senza scopo - che nella comprensione anticipatrice dell’“essere‑per‑la‑morte” ritrova la mediazione liberatrice che libera la storicità propria del tempo e delle possibilità dall’ideologia dell’Aufhebung hegeliana. La riappropriazione individuale della nullità propria dell’essere, come movimento della Jemeinigkeit che si identifica con la riappropriazione della propria morte e produce la distruzione del proprio essere come condizione per liberare le possibilità d’essere del tempo, della storia e del mondo - la decisione liberatrice dell’essere per la morte - e il movimento in cui il negativo - il “non” della “differenza ontologica”, che si illumina e si manifesta come identità del divenire dell’“evento” (Ereignis), in quanto distrugge la storia onto‑logica dell’essere, dis‑velandone le possibilità a partire dalla radicale, propria finitudine (che è la completezza e la sovrabbondanza delle possibilità di essere) - la negatività, attraverso il salto della riappropriazione individuale della morte come sua radicale possibilità assoluta, nella comprensione anticipatrice della morte come possibilità “fondamentale” dell’“essere” e della sua possibilità, distrugge la sua stessa possibilità, il presupposto stesso della sua scelta individuale - in quanto l’apertura che ha prodotto, nell’anticipazione della morte, rivela l’essere finito, cioè la completezza e totalità dell’essere come e‑venire, offrirsi, darsi - donarsi della “cosalità” dell’essere, di ciò che “c’è” (es gibt) - che è l’esperienza stessa della cosalità di ciò che c’è, come presenza e presentificarsi e lasciarsi essere dell’estaticità e temporalizzazione dell’essere “che c’è” nella storia, al di fuori e contro ogni determinazione soggettivo‑oggettiva, logica, teologica e ontologica della soggettività filosofico--scientifica e teologico‑estetica. Da Essere e tempo a Tempo ed essere, il duplice movimento della negatività, emersa nell’esigenza della comprensione della totalità e del superamento della reificazione, come movimento di riappropriazione delle cose stesse, attraverso il rifiuto delle mediazioni logiche, culturali, ideologiche, metafisiche ecc. non nasce dalla mancanza, dall’insufficienza, ma dalla pienezza e dal compimento del contenuto onto‑teologico della metafisica moderna, la cui esigenza di raffigurare e costruire la pluralità ideologico‑ontologica delle possibilità d’essere del mondo moderno, si è concretizzata nella razionalizzazione tecnico‑scientifica e nei processi di automazione, massificazione ed organizzazione che hanno accompagnato lo sviluppo. Il “superamento della metafisica”, che esprime il movimento di emergenza‑appropriazione dell’essere delle cose, al di là e contro le loro interpretazioni onto‑teo‑logiche, definisce il “compimento della metafisica”, il cui ultimo e immediato atto è l’“essenza della tecnica moderna”. Da Sein und Zeit a Zeit und Sein, la riappropriazione individuale del negativo, come “essere‑per‑la‑morte”, diventa tentativo di pensare l’essere “che c’è” dell’Ereignis a partire dall’apertura estatica del tempo ‑ come cosalità della cosa stessa che emerge nell’identità della differenza, al di là del suo “non”, come essere che si dà, lasciandolo essere nel suo essere cosa, come il negativo della finitudine che si ricompone e si riappropria del suo essere, dentro e fuori, con e contro la presente configurazione onto‑teo‑logica della tecnica moderna.

Dall’analitica esistenziale dell’esserci come comprensione anticipatrice della morte, sino al “compimento della metafisica” nelle forme organizzate dello sviluppo tecnico‑scientifico, della pianificazione e del calcolo, suprema espressione e realizzazione del soggettivismo della metafisica moderna; dalle determinazioni religiose della interiorità teologico‑cristiana alle forme lirico‑intuitive dell’ermeneutica estetizzante, la Seinsfrage ripercorre il terreno degli “erramenti” della comprensione delle in‑finite possibilità dell’essere delle cose nella loro possibilità di dis‑velamento e di occultamento, nella diversità di forme‑apparizioni e determinazioni, in cui la non‑conclusività e la ripetibilità di memorizzazione esplicita la pluralità‑diversificazione, l’identità‑differenza del finito, non più solo a partire dal “non”, ma muovendo dall’essere stesso “che c’è”. Sia a partire dalla riappropriazione del negativo, nell’angoscia dell’“essere‑per‑la‑morte”, sia ponendo il problema di un “pensare non calcolatorio”, che pensi l’essere come “esperienza della cosa stessa”, al di fuori delle forme logico‑ontologiche del “pensiero calcolatorio e pianificato”, la Seinsfrage disvela ed occulta, rivela e nasconde, esprime nella diversità e differenza l’identità aperta della possibilità del finito, come verità e non‑verità.

Nella cerchia dell’ente più prossimo ci riteniamo al sicuro. L’ente ci appare familiare, fidato, sicuro. Tuttavia l’illuminazione vi distende un costante nascondimento, nella duplice forma del rifiuto e della simulazione. Il sicuro è, in fondo, malsicuro, non è rassicurante del tutto. L’essenza della verità, cioè il non‑essere‑nascosto, è pervasa da un diniego. Questo diniego non è affatto una mancanza o un difetto, come se la verità fosse un semplice non‑nascondimento liberatosi da ogni impaccio. Se ciò fosse possibile il non‑essere‑nascosto non sarebbe più se stesso. È all’essenza stessa della verità come non‑essere‑nascosto che questo diniego appartiene nella forma del duplice nascondimento. La verità, nella sua essenza stessa, è non‑verità. Ciò va detto affinché appaia in tutta la sua forse sconcertante chiarezza il principio che del non‑essere‑nascosto come illuminazione fa pensare il diniego nella forma del nascondimerito. L’affermazione che l’essenza della verità è la non‑verità non sta quindi a significare che la verità sia in fondo falsità. Parimenti essa non significa che la verità non sia mai se stessa, nel senso che, dialetticamente, sia sempre anche il suo opposto. La verità è‑presente proprio come se stessa, nella misura in cui il diniego nascondente, in quanto rifiuto, conferisce a ogni illuminazione la sua costante provenienza; e in quanto simulazione assegna ad essa l’irrimediabile presenza dell’erramento. Il diniego nascondente denota, nell’essenza della verità, quell’elemento di contrasto che sussiste, nell’essenza stessa della verità, fra illuminazione e nascondimento. È questa la contrapposizione della lotta originaria in cui viene conquistato, lottando, quel Centro aperto in cui l’ente soggiorna ed in base a cui si ritira in se stesso[14].

E successivamente:

La verità è non‑verità. Nel non‑essere‑nascosto come verità è presente, ad un tempo, l’altro “non” del duplice rifiuto. La verità è la lotta originaria in cui, sempre in un particolare modo, viene conquistato l’Aperto in cui sta dentro ogni cosa e da cui emerge, ritirandovisi, ciò che si manifesta e si costituisce come ente. Comunque questa lotta erompa e si storicizzi, sempre, attraverso di essa, si costituiscono, separandosi, i lottanti: l’illuminazione e il nascondimento. In tal modo è conquistato l’Aperto del campo di lotta. L’apertura di questo Aperto, cioè la verità, può esser ciò che è, cioè questo aprimento, solo se e fintantoché essa si istituisce nel suo Aperto. Perciò in questo Aperto deve sempre sussistere un ente in cui l’apertura assuma il suo stato e la sua stabilità. In‑ponendosi così all’Aperto, la verità lo mantiene aperto. Porre e in‑porre, qui, sono sempre intesi muovendo dal senso greco di tésis, che sta a significare il produrre es‑ponente nel non‑essere‑nascosto[15].

Il movimento della cosa stessa, e non la dialettica (hegeliana) o la coscienza (husserliana) come mediazioni filosofiche e metafisiche dell’essere, è ciò che ricompone la lotta di verità e non‑verità di illuminazione e nascondimento, che costituisce, senza rappresentazioni e rispecchiamenti, la produzione e il porre determinato dell’essere di ciò che “c’è”, che, insieme con la temporalizzazione del tempo, è anteriore alle determinazioni, rappresentazioni e distinzioni soggettivo‑oggettive, per cui “essere e tempo […] si pongono reciprocamente in modo che quello - l’essere - e questo - il tempo - non possono dirsi né temporali né che sono”. Infatti,

Noi non diciamo: essere è, tempo è, ma: c’è l’essere, c’è il tempo [...]. Invece di ‘è’, noi diciamo ‘c’è’ (es gibt)[16].
All’inizio del pensiero occidentale è pensato l’essere, ma il ‘c’è’ in quanto tale. Questo si nega a favore del dono, ciò che c’è, il quale dono solo successivamente è pensato come essere in rapporto all’ente ed è posto in un concetto. Un dare, che dà solo il suo dono, ed in questo tuttavia trattiene se stesso e si annienta, un tale dare noi lo chiamiamo accettare. Secondo il senso in cui deve essere pensato il dare, esso è l’essere, il c’è, il destino. Così resta destino ogni sua trasformazione. La storicità della storia dell’essere si determina a partire dall’essere‑destino di un accettare, non a partire da un avvenimento inteso in modo indeterminato[17].

Questo darsi‑negarsi della storicizzazione del “c’è”, nel destino dell’“identità” che si nega come “differenza” e si riappropria come “evento” di “ciò che è”, è la storia epocale dell’essere‑proprio, espropriato e riappropriato nella sua presenza temporale e spaziale, come necessità‑libertà di ciò che emerge (“eviene”) nel e dal compimento epocale, come negazione‑accettazione dell’evenire dell’evento dell’essere‑proprio, in cui la riappropriazione e memorizzazione del proprio‑destino, occulta e svela, nello stesso tempo, il “c’è”, nella sua pienezza spaziale e temporale, nella materialità assoluta (“finita”), come possibilità di essere totalmente il proprio destino, riappropriandosi totalmente della propria espropriazione.

Il dono del presente è ciò che è proprio dell’evenire. Essere scompare nell’evento. Nell’espressione ‘essere in quanto l’evento’, 1’‘in quanto’ vuol dire ora essere, lasciar‑essere presente il destino nell’evenire, il tempo che fluisce nell’evenire. Tempo ed essere avvengono nell’evento. E questo? Si può più ancora parlar dell’evento?[18].

Il rifiuto come espropriazione e perdita d’identità emerge liberando l’identità di “ciò che c’è”, come destino dell’essere‑proprio, come specificazione storica dell’evenire‑avvenire del presente come far‑essere presente, verità‑disoccultamento della possibilità finita, come fluire temporale e spaziale della totalità dell’essere‑proprio, come libertà‑necessità, attività‑passività, espropriazione‑riappropriazione.

Durante il nostro cammino, è stato già pensato, ma non ancora affermato propriamente, che al dare dell’accettare appartiene l’occultarsi, cioè il fatto che, nel fluire di ciò che è stato e del suo pervenire, agiscono il rifiuto ed il sottrarsi dei presente. Ciò che ora è stato chiamato occultarsi, rifiuto, sottrazione di sé, designano quasi uno stesso movimento di negazione, in breve: il rifiuto. In quanto però essi, con i modi determinanti del dare, l’accettare ed il fluire, riposano nell’evenire, il rifiuto deve appartenere a ciò che è proprio dell’evento[19].

L’essere‑proprio dell’“evento”, è che l’“accettare” il “destino” è l’apertura e liberazione, il far‑essere‑presente del “fruire” e del “darsi”, la ricomposizione temporale e spaziale delle determinazioni‑possibilità finite dell’emergenza.

Nel tempo autentico e nel suo tempo spazio si mostrava il fluire di ciò che è stato, dunque del non‑più presente, il rifiuto di questo. Appariva nello scorrere del futuro, cioè del non‑più‑presente, del sottrarsi a questo. Rifiuto e sottrazione manifestano lo stesso movimento del fissarsi nell’accettazione cioè l’occultamento. In quanto ora il destino dell’essere nel fluire del tempo e questo con quello stanno nell’evento, si manifesta nell’evenire ciò che è suo proprio, che impedisce il suo appropriarsi dell’illimitato occultamento. L’evenire qui pensato, significa questo: esso si espropria, nel senso detto, di se stesso. All’evento come tale appartiene l’espropriazione. Per esso l’evento non nega sé, ma esprime il suo essere proprio [...] Nell’essere come presenza si manifesta il primo movimento, che coinvolge noi uomini, che nel percepire e nell’assumere questo movimento, abbiamo conseguito la caratteristica dell’essere umano. Questa assunzione del movimento iniziale del presente consiste però nello stare‑dentro nella sfera del fluire, in cui come tale ci ha raggiunto l’autentico tempo quadridimensionale. In quanto essere e tempo stanno solo nell’evenire, appartiene ad esso la proprietà, che esso porta l’uomo, come colui che percepisce l’essere, in quanto sta‑dentro nel suo proprio tempo, nel suo essere proprio. Così riappropriato, l’uomo appartiene all’evento[20].

Nel “compimento”-“superamento”-“distruzione” delle determinazioni “onto‑teo‑logiche” del pensiero “calcolatorio e pianificante”, “fondante‑rappresentante”, cadono i vincoli del soggetto‑oggetto, riassorbiti e confusi nell’emergenza di questa dimensione nuova, astratta e concreta nel senso marxiano, in cui il movimento dell’evento fluisce nella pluralità dimensionale del tempo e dello spazio di processi apparentemente impersonali di espropriazione e di riappropriazione, di identificazione e di differenziazione dell’“esperienza stessa della cosa”, che ricompone l’uomo al di fuori e contro le sue determinazioni metafisiche, nel fluire contraddittorio temporale e spaziale della sua finitudine costitutiva. In questo sforzo di liberazione, il nuovo pensiero non calcolatorio, che è tutt’uno con l’essere del movimento stesso della riappropriazione‑espropriazione, il nichilismo di Nietzsche e il “rovesciamento dei valori” del pensiero negativo, articolano l’etica del rifiuto per distruggere le gabbie dei valori, dei significati e delle teleologie che “nascondono” e “impediscono” la riappropriazione della condizione umana. La proposta heideggeriana di “pensare” questo processo, come “fine della filosofia” e distruzione del “principio di tutti i principi”, il principio moderno della soggettività della coscienza, che ha trovato in Hegel e Husserl gli interpreti più attuali e pericolosi contro i quali Heidegger contrappone e radicalizza l’“esperienza della cosa stessa[21], va perciò accolta, radicalizzata e liberata anche dai residui e dalle contraddizioni del suo proporsi come un “pensare”, sia pure già fuori della tradizione della coscienza separata. Ciò che ci sembra opportuno sottolineare, ora, in una fase di riflessione critica sull’opera di Heidegger, è la necessità di respingere qualsiasi tentativo di usare tale “pensare” sul “superamento della metafisica” per restaurare pur in modo critico ed aperto, il regno separato dell’integralismo filosofico‑speculativo, del tutto omogeneo all’altro tentativo, apparentemente opposto, di liquidarlo come espressione irrazionalistica della decadenza tardo‑borghese. La Seinsfrage heideggeriana ripropone la possibilità di recuperare un nuovo modo di pensare, nella crisi della forma piano del pensiero calcolatorio e della razionalizzazione scientifica e tecnica, nella prospettiva del “superamento” ma nel “compimento” del movimento astratto e concreto della tecnica moderna, che designa, sia pure nel modo riduttivo e deformato della Sozialökonomik borghese, la specificità storica del capitalismo organizzato. Per cui la “fine della filosofia” resta il compito immediato di un pensiero che, nel rifiuto dell’esistente, disocculta l’essere dell’“evento”, come spessore temporale e spaziale del movimento che si è oggettivato‑espropriato‑razionalizzato nella tecnica moderna. Il pensiero della “fine della filosofia” si pone come “rifiuto del pensiero attuale a determinare la cosalità del pensiero”[22], rifiuto a porre il pensiero e l’essere come cosa, per ricomporre l’autonomia originaria dell’essere delle cose nel processo‑movimento di riappropriazione‑espropriazione dell’originario essere delle cose, come evenire dell’evento, nella tensione contraddittoria del “porre oggettivante‑oscurante” e del “rappresentare‑fondante” della razionalità calcolatoria e pianificatrice, e del contrapposto movimento del rifiuto, dell’occultamento e della negazione - il movimento astratto‑concreto che è la contraddizione del finito e del possibile. La “fine della filosofia” come compito del pensare che nasce dalla crisi della forma piano del pensiero calcolatorio, e che esprime la crisi e il superamento non come scelta soggettiva ideologica, ecc., ma come movimento interno che deriva dal suo “compimento”, si pone come rifiuto e disvelamento, nello stesso tempo, come “sì e no”, come accettazione e negazione, della tecnica e del modo d’essere posto nella e dalla tecnica - il Ge‑stell -, come suo destino e come possibilità dell’“assolutamente altro” - che è il movimento della Gelassenheit, con cui diciamo nello stesso tempo “sì e no”, esprimendo il movimento di verità‑non verità, di accettazione‑rifiuto, che rende possibile il “lasciar essere” come “presentificare”, “rimemorizzare”, “riappropriare” l’essere delle cose, come “esperienza della cosa stessa”, “che non è per nulla una passività”, ma una suprema attività[23]. Che è riproporre la Seinsfrage non come nuova ontologia, ma come movimento della cosa stessa, o del suo essere, che nel rifiuto si pone come emergenza dall’interno stesso della crisi della pro‑duzione tecnico‑scientifica e della sua organizzazione e pianificazione cibernetica. Se il “finito” e la “possibilità” non sono solo nuove categorie logico‑filosofiche, ma strutture dell’essere delle cose, che emergono solo in quanto il pensiero umano si riconosce ritrovandosi nell’interno movimento di rifiuto‑presenza, di espropriazione‑riappropriazione di ciò che il pensiero stesso, compiendo e superando la forma di piano e di calcolo dell’oggettivazione‑produzione tecnico‑scientifica, riesce a far emergere, come “evento” ed “evenire”, non andando al di fuori, ma restando all’interno della specificità storica, nel “destino” e nella “rassegnazione”, che è anche “rifiuto” e “negazione” della pro‑duzione tecnico‑scientifica e della sua razionalizzazione cibernetica -, allora questa nuova logica e la nuova filosofia non sono altro che il compito heideggeriano di negazione e di distruzione del pensiero come cosa, cioè della logica e della filosofia separata. Ma è qui che il pensiero negativo può riproporsi solo in quanto si ricompone, nella crisi della sua stessa funzione di razionalizzazione e pianificazione dell’esistente, come pratica stessa della negazione e dell’illegalità, non in inutili profondità interiori, ma nell’effettiva materialità dello scontro e della lotta, in cui emerge il possibile, come il movimento che rovescia lo stato di cose presente, di cui parla Marx nel Manifesto.


[1] M. Heidegger, Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens, in Zur Sache des Denkens, Tübingen, 1969, p. 79.

[2] M. Heidegger, Protokoll zu einem Seminar über den Vortrag “Zeit und Sein” in Zur Sache des Denkens, cit., p. 34.

[3] Cfr. W. Sombart, Il capitalismo moderno, Torino, 1967, pp. 562 ss. Sul pensiero negativo, cfr. M. Cacciari, Sulla genesi del pensiero negativo, in “Contropiano”, 1/69, pp. 131-200 e Pensiero negativo e razionalizzazione, Padova, 1977, pp. 13-84, che esplicitano, tuttavia, solo la faccia capitalistica del processo.

[4] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, Firenze, 1968, p. 84.

[5] K. Marx, Lineamenti fondamentali, vol. II, Firenze 1970, pp. 2 ss. e 387-411.

[6] M. Heidegger, Gelassenheit, Tübingen, 1959, pp. 25-26.

[7] Sulla figura del “proletariato sociale”, cfr. A. Negri, Proletari e stato, Milano 1977, e per la tematica della riappropriazione, A. Negri, Partito operaio contro il lavoro, in Crisi ed organizzazione operaia, Milano, 1974.

[8] Cfr. R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione, in “Quaderni rossi”, pp. 261 e ss.

[9] È perciò necessario sottolineare il significato, tutto da riscoprire, dell’analisi dello sviluppo capitalistico di Max Weber e di Werner Sombart, che segna il punto più alto di connessione tra riformismo sociale e razionalizzazione produttivistica della pluridecennale storia del Verein für Sozialpolitik (1872-1933), in cui viene elaborata e costruita la continuità tra ideologia borghese del lavoro e strategia socialdemocratica del piano. Un aspetto di questo processo viene colto e descritto, al livello della critica dell’ideologia, nell’analisi di Kurt Lenk delle forme ideologiche con cui la sociologia della conoscenza, da Simmel a Mannheim, assimila ed usa la critica marxiana dell’ideologia (cfr. K. Lenk, Marx e la sociologia della conoscenza,Bologna, 1975). Rimangono da esplicitare, invece, i livelli più specifici di appropriazione borghese della critica dell’economia politica da parte della Sozialökonomik tedesca dell’età guglielmina, per ricostruire i caratteri del capitale piano e dello stato piano, nell’impatto tra riformismo operaio, teoria della razionalizzazione e movimento operaio professionale.

[10] K. Marx, Lineamenti fondamentali, II, cit., p. 403.

[11] L’espressione marxiana si trova nelle opere giovanili di Marx e di Engels a definire la critica dell’ideologia (cfr. La Sacra famiglia, ovveroCritica della critica critica, Roma, 1969).

[12] K. Marx, Lineamenti fondamentali, I, cit., pp. 279-280.

[13] È possibile, per ricostruire questa dimensione di attualità dello sviluppo e della crisi di Weimar, usare anche qui l’ampio materiale dei dibattiti del Verein für Sozialpolitik (1919-1933), in cui emerge lo scontro e la progressiva omogeneità tra la tendenza del vecchio riformismo sociale borghese della “scuola storica” ad evolvere verso l’ideologia socialdemocratica della “programmazione democratica” (C. Landauer, W. Rathenau, E. Lederer, R. Hilferding ecc.) e la riproposizione della “Rationalisierung” da parte della nuova scuola neo-liberale (L. v. Mises, F. v. Hayek, la “scuola di Friburgo”). Cfr., in particolare Verhandlungen des “Vereins für Sozialpolitik”, München und Leipzig, 1919 (sul problema della socializzazione); Schriften des “Vereins für Sozialpolitik”, München und Leipzig, 1926-1928 (su crisi e ristrutturazione dell’economia mondiale), 1929-1933 (su crisi e disoccupazione da razionalizzazione e sulla politica economica e finanziaria dello “Stato sociale”).

È utile sottolineare che nel ‘27, quando Heidegger pubblica Sein und Zeit, Sombart pubblica la terza parte della sua opera Der moderne Kapitalismus,che analizza la fase della “maturità” dello sviluppo, il cui punto più elevato coincide con la stabilizzazione e pianificazione del movimento di Rationalisierung iniziata dopo la crisi d’inflazione del ‘23, e che nella parte centrale, propone la razionalizzazione capitalistica come “la teoria borghese della concentrazione” (W. Sombart, Das Wirtschaftsleben im Zeitalter des Hochkapitalismus, München und Leipzig, 1927, particolarmente nel vol. II). Questa coincidenza diventa tanto più significativa, in quanto dal ‘27 Sombart assume l’analitica esistenziale heideggeriana per rifondare la teoria dell’economia politica con un’articolazione ontologico‑antropologica della scienza sociale “comprendente” di matrice weberiana (cfr. Die drei Nationalökonomien, Berlin, 1932). E questo non solo per una necessaria storicizzazione di Sein und Zeit, ma anche per un più adeguato nesso teorico tra il pensiero negativo e la forma piano della razionalizzazione capitalistica.

[14] M. Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze, 1968, pp. 39-40.

[15] Ivi, pp. 46-56.

[16] M. Heidegger, Zeit und Sein, in Zur Sache des Denkens, cit., p. 5.

[17] Ivi, p. 9. Se l’espressione “c’è essere” vuol dire che “essere dà essere”, essa non indica nessun “ente”, nessuna “cosa”, ma al contrario, che l’“es” contenuto nella frase “es gibt Sein, è “una forma del Dare [...], il Dare come destino, il Dare come fluire illuminante” (p. 19), per cui “Nel destino della storicità dell’essere, nel fluire del tempo, si temporalizza un appropriarsi, un trapassare cioè dell’essere come presenza e del tempo come ambito dell’Aperto nel loro essere proprio. Ciò che determina l’uno e l’altro, tempo ed essere, nella loro proprietà, cioè nella loro reciprocità, noi lo chiamiamo l’evento (p. 20). Sulla nozione di Ereignis nel pensiero di Heidegger, da Identität und Differenz, ai due volumi su Nietzsche a Das Wesen der Technik, cfr. Protokoll zu einem Seminar über den Vortrag Zeit und Sein”, cit., pp. 38-39.

[18] M. Heidegger, Zeit und Sein, cit., pp. 22-23. Dell’“evento”, dice Heidegger, non si può dire né che è, né che c’è: “L’evento non è, c’è” (p. 24). “Ciò che resta da dire: l’evento accade. Così poi parliamo dello Stesso, da e per lo Stesso” (ibidem).

[19] Ivi, p. 23.

[20] Ivi, pp. 23-24.

[21] M. Heidegger, Protokoll zu einem Seminar über den Vortrag Zeit und Sein”, cit., p. 27. Essenziale, per questo, è il confronto critico con la dottrina kantiana dell’analitica trascendentale in Die Frage nach dem Ding, Tübingen, 1962, e le lezioni heideggeriane del 1951-1952 su Was heisst Denken, Tübingen, 1961. Infine, importanti sono i saggi conclusivi del volume Zur Sache des Denkens, Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens, pp. 61-80, e Mein Weg in die Phänomenologie, pp. 81-90.

[22] M. Heidegger, Das Ende der Philosophie und die Aufgabe des Denkens, cit., p. 80.

[23] M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p. 66; il fondamentale saggio Gelassenheit, cit.; la conferenza La cosa, in Saggi e discorsi, Milano, 1976, pp. 109-124, col saggio già citato L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, cit., pp. 3-69. Nel già citato Protokoll su einem Seminar über Vortrag “Zeit und Sein”, dice Heidegger: “Solo fino a quando c’è il lasciar‑essere‑presente, è possibile il lasciar‑essere‑presente del presente” (p. 40), la cui “fondamentale difficoltà sta in questo, che è dall’evento che diventa necessario aprire al pensiero la differenza ontologica” (pp. 40-41). Ed è questa dimensione “attiva” del processo di espropriazione-riappropriazione dell’“evento”, che costituisce quel “primato della prassi” della Seinsfrage,che da Sein und Zeit al Brief über den Humanismus a Zeit und Sein rende possibile “un dialogo produttivo col marxismo” (cfr. i saggi di C. Astrada, Über die Möglichkeit einer existenzial-geschichtlichen Praxis, in Martin Heidegger Einfluss auf die Wissenschaften. Aus Anlass seines sechzigsten Geburtstages, Bern, 1949, pp. 165-171; O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Pfüllingen, 1963; A. Chapelle, L’ontologie phénoménologique de Heidegger, Paris, 1962; M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, cit., pp. 85 ss.; G. Prauss, Erkennen und Handeln in Heideggers “Sein und Zeit”, Freiburg/München, 1977; H. G. Gadamer, Vom Zirkel des Verstehens, in Martin Heidegger zum siebzigsten Geburtstag, Pfüllingen, 1959, pp. 24-34; K. Axelos, Einführung in ein künftiges Denken, Tübingen, 1966; L. Goldmann, Lukács e Heidegger; Verona, 1976, che pur nella diversità di orientamenti interpretativi, colgono la qualità storico‑sociale e politico‑esistenziale della problematica heideggeriana del “superamento della metafisica”, sia pure in una visione generalmente dipendente del pensiero negativo rispetto alla “tésis‑pro‑duzione dei meccanismi di razionalizzazione e pianificazione del “pensiero calcolatorio” e della tradizione “onto‑teo‑logica” e della tecnica moderna).