Globalizzazione e morale

Nicola Massimo de Feo, 02/03/2021

Datato: 01/01/1998

In Globalizzazione e morale del 1998, emerge l’esigenza di una morale e di una riflessione etica volte alla riappropriazione del sé, di contro a una dimensione dominata dall’imperativo del mercato neoliberale che schiaccia sotto la norma dell’utilitarismo le possibilità di auto-determinazione delle soggettività, delle loro relazioni, dei loro bisogni e desideri. In questo senso, il carattere negativo della morale o tale «immoralismo» assume la forma del rifiuto di ogni tentativo di normalizzazione, disciplinamento, tabù; una riflessione che, nel tentativo di disfarsi della logica imposta dalla globalizzazione, non ricade nella restaurazione dell’integralismo etico, bensì sovverte l’imperativo in quanto tale, proiettandosi verso la piena liberazione del sé, delle relazioni, del linguaggio, della sessualità, dei bisogni.

Sulla 'questione morale': «violenza per il corpo e menzogna per lo spirito»

Nicola Massimo de Feo, 01/02/2021

Datato: 01/01/1989

Questo articolo, comparso sulla rivista barese «Escamotage» nel 1989, riprende eloquentemente la formulazione del pensiero di Sergej Nečaev, rivoluzionario russo del XIX secolo, espressa da M. Bakunin (cfr. M. Bakunin, Gewalt für den Körper. Verrat für die Seele. Berlin 1980). Al cuore del ragionamento di de Feo, ritroviamo la questione delle politiche d'emergenza, che dalla fine degli anni Ottanta si sono fatte sempre più strada nelle pratiche governamentali. Analizzando questo problema foucaultiano, il professore barlettano adoperò però gli strumenti del suo «nietzscheanesimo senza riserve», leggendo nel governo della precarizzazione una nuova determinazione storica della sussunzione, dunque dello sfruttamento. In anticipo sui tempi, mostrò quanto oggi stiamo sperimentando: da un lato, la centralità della «vita» nei processi di soggettivazione e di valorizzazione della forza lavoro; dall'altro, per dirla con Paul Nizan, la guerra contro la «vita» intesa come desideri, valori, capacità e potenza che sfuggono al capitale come rapporto sociale.

Il folle come operaio sociale

Nicola Massimo de Feo, 15/12/2020

Datato: 20/01/1992

Ne Il folle come operaio sociale (1992) de Feo rintraccia la funzione distruttiva della voce dei folli nella società-gabbia del capitalismo e della morale borghese, che ricalca l’antagonismo carcerario di cui l’autore aveva parlato due anni prima.

La trasformazione del conflitto di classe nella forma della malattia mentale e la conseguente ghettizzazione dei folli abbandonati seguono il filo rosso dell’attacco politico alla legge Basaglia che solo quattordici anni prima aveva chiuso i manicomi. Il folle è privato di ogni tipo di intelligenza e quindi sostanzialmente inutile al processo produttivo: è in questa sofferenza che il malato mentale ritrova la sua identità, il suo linguaggio che vuole liberarsi e liberare autodeterminandosi al di fuori della logica della produttività e dell’utilitarismo. In questo senso il folle diventa operaio sociale.

I detenuti come operai sociali

Nicola Massimo de Feo, 01/12/2020

Datato: 01/01/1990

In I detenuti come operai sociali (1990) e Il folle come operaio sociale (1992) de Feo analizza i momenti di rottura della razionalità borghese nella presa di coscienza e nelle rivendicazioni degli esclusi: i “folli” degli ormai ex manicomi e i detenuti delle carceri.
Nello specifico, in questo articolo il filosofo barese riflette sul nesso capitalistico tra mercificazione, sfruttamento e oppressione riprodotto nella sua forma più perfetta e opprimente nell’istituzione carceraria. Nella critica alla “funzione rieducativa” in quanto recupero della repressione carceraria come controllo sociale (in cui si risentono echi foucaultiani) de Feo rintraccia la rottura di questo nesso, rileggendo in quest’ottica le rivolte carcerarie in Italia e Germania degli anni Novanta che riguardarono sia detenuti politici che detenuti cosiddetti “comuni”. Proprio in quanto il carcere è il terreno più sperimentato e avanzato di distruzione dell’individuo e successiva ricostruzione di quest’ultimo in corpo docile (come direbbe il Foucault di Sorvegliare e punire), esso diventa il luogo privilegiato della lotta per l’autodeterminazione: in questo vivere sociale antagonista i detenuti diventano operai sociali, non solo nella gabbia del carcere ma anche nella società “ingabbiata” dalla cella capitalistica, nella tensione alla riappropriazione sociale del corpo.

Malattia e memoria in Nietzsche

Nicola Massimo de Feo, 30/10/2020

Datato: 01/01/1973

In Malattia e memoria in Nietzsche del 1973 De Feo si scontra con la cecità che caratterizza il pensiero di Nietzsche, incapace di cogliere l’oggettività della prassi storica e sociale. Egli ravvisa nella pretesa nietzschiana di una "desoggettivazione" del pensiero, che dà corpo alla dimensione prospettico-dialettica della storia della materia, una inevitabile ricaduta in una più raffinata forma di soggettivismo, che si re‑instaura a fondamento delle interpretazioni della realtà. A partire dalla malattia e dalla morte del padre, incarnazione della "ragione" e della "legge" della vita sociale borghese nel suo carattere più nichilistico, il filosofo tedesco sancisce il rifiuto dell’uomo e di Dio, dei valori preesistenti, della filosofia metafisica e con essa della religione e della scienza, a favore di un bisogno di oggettività che si traduce nella teorizzazione di una filosofia storica, in cui la materia è processo senza soggetto, pensiero senza io. Tuttavia tale decostruzione critica – ed è questo il tema centrale dell’analisi di De Feo – non è e non può essere separata da un inevitabile ripiegamento sul troppo umano, da una deriva "psicoanalitica". Il troppo umano non viene mai dimenticato, bensì recuperato in una sintesi di tipo hegeliano che impedisce una conoscenza oggettiva del reale, il quale non appare se non come una possibilità secondo la disponibilità di senso del soggetto. Così si constata l’impossibilità di rimuovere il feticcio della memoria.